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Chiesa e disabilità. Suor Donatello (Cei): “Le persone disabili abbiano posti di responsabilità, non sono più sufficienti le quote”

"La Chiesa italiana non parla su di loro, ma parla con loro. Le persone disabili sempre più dovrebbero essere presenti nei nostri tavoli decisionali, negli eventi organizzativi e nei posti di responsabilità. Vogliamo che le indicazioni del magistero e la Parola di Dio siano trasformati in una prassi dell'ordinarietà". Suor Veronica Amata Donatello, responsabile del Servizio Cei per la Pastorale delle persone con disabilità, parla all'indomani della pubblicazione della nota della Pontificia Accademia per la Vita

(Foto ANSA/SIR)

“La Chiesa italiana non parla su di loro, ma parla con loro. Le persone disabili sempre più dovrebbero essere presenti nei nostri tavoli decisionali, negli eventi organizzativi e nei posti di responsabilità. Vogliamo che le indicazioni del magistero e la Parola di Dio siano trasformati in una prassi dell’ordinarietà. Non basta mettere una persona disabile nell’organizzazione di un evento”. Suor Veronica Amata Donatello, responsabile del Servizio Cei per la Pastorale delle persone con disabilità, parla all’indomani della pubblicazione della nota della Pontificia Accademia per la Vita su “L’amicizia con le persone con disabilità: l’inizio di un nuovo mondo”.

foto SIR/Marco Calvarese

Che novità è contenuta nel testo?
È un documento che ha una visione mondiale. Ognuno di noi ha diritto alla salute e all’informazione come persona. È un diritto fondamentale che non è possibile lasciare alla benevolenza o al buon cuore. Essere persona è quello che accomuna tutti e la pandemia ha mostrato quanto sia difficile rispettare questo criterio. La nota ribadisce con forza e autorevolezza tutto ciò. Non basta curare l’altro, perché l’altro ha anche una vita. Pensiamo alle persone con autismo che hanno avuto interrotte routine e abitudini, modificati stili di vita. Non c’è stato un accompagnamento per sostenerli in questo vissuto personale. Siamo stati carenti anche noi. Non c’è stata informazione che tenesse conto della pluralità dei linguaggi e, se non badiamo a questo aspetto, escludiamo il 60% delle persone con disabilità che hanno bisogno di comunicativi complessi.

C’è il diritto alla salute, ma anche all’informazione e all’accompagnamento. Dobbiamo accompagnare la famiglia e i caregiver, che non hanno gli strumenti per affrontare situazioni di crisi del genere. Ci sono genitori che hanno dovuto fare i fisioterapisti, gli infermieri, gli educatori, gli psicoterapeuti. E non è giusto.

La pandemia, si legge nella nota, ha avuto un impatto negativo sproporzionato sulle vita delle persone disabili e dei loro cargiver.

È stato uno shock enorme. La società si sta interrogando su come aiutare i giovani e le persone normodotate ad uscire da questo periodo. Pochi, però, si domandano come accompagnare la persona con disabilità. Ci sono famiglie con figli pluridisabili che hanno timore di rimandarli a scuola a settembre, perché hanno vissuto un anno e mezzo chiusi in casa senza vedere parenti e colleghi. È stato un terremoto.

A volte siamo stati afoni, non abbiamo saputo parlare.

Il Papa ci ricorda che una delle pecche della Chiesa è la mancanza di ascolto. Dobbiamo riconoscerlo: talvolta non abbiamo ascoltato, pensando che ripristinare alcune prassi avrebbe riportato tutto alla normalità. Non è così e dobbiamo prenderne consapevolezza.

Eppure l’Italia rappresenta un’eccezione positiva nella capacità di accompagnamento…

L’Italia ha uno stile mediterraneo di accoglienza e di accompagnamento. Dove la comunità era viva e la famiglia era accanto alla comunità, il sostegno è stato fondamentale. Quando la famiglia non era legata a un ambito territoriale, invece, la fatica è stata tanta. La grande paura dei genitori è stata fonte di enorme stress: chi li accompagna ora? A volte le nostre risposte hanno rischiato di essere normalizzanti, la stessa soluzione per tutti. Non è così.

La forza dell’Italia è nelle comunità che hanno messo in moto l’accoglienza e l’accompagnamento.

(Foto ANSA/SIR)

Il documento parla di “magistero della disabilità”.

Dal Concilio Vaticano II in poi, la maggior parte dei documenti riservano un’attenzione particolare alla disabilità. Non come quota di partecipazione alla vita della Chiesa, ma come coscientizzazione di appartenere al popolo di Dio.

Le persone disabili e le loro famiglie, se ascoltate, sono un grande dono per la comunità cristiana.

Non in chiave passiva. Il magistero ha una visione di parresia, la cui attuazione è purtroppo lasciata a noi. Che spesso siamo manchevoli.

È il momento di coinvolgere le persone disabili nella Chiesa?

La Chiesa italiana non parla su di loro, ma parla con loro. Le persone disabili sempre più dovrebbero essere presenti nei nostri tavoli decisionali, negli eventi organizzativi e nei posti di responsabilità. Vogliamo che le indicazioni del magistero e la Parola di Dio siano trasformati in una prassi dell’ordinarietà. Non basta mettere una persona disabile nell’organizzazione di un evento, ma questo deve diventare normalità.

Non sono sufficienti le quote, non è questa la Chiesa che vogliamo.

Il magistero è chiaro, le persone con disabilità hanno fatto un cammino durante il quale hanno scoperto il proprio valore. La Chiesa può fare la differenza e lo sta dimostrando. Dobbiamo avere il coraggio di essere uguali.

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