Chi è Abramo? L’uomo del principio e fondamento

Abramo, padre e modello della nostra fede, anche nella sua morte ci è di esempio: ci invita a riconoscere il bene che “già c’è”, e a rallegrarcene, sapendo che, piccolo o grande che sia, sarà sempre e soltanto un tassello, in quel cammino complessivo che ci porterà all’unico vero bene capace di acquietarci: il godimento di Dio stesso, nella gioia intramontabile del suo Regno

(Foto Siciliani Gennari/SIR)

Con tutta la rilevanza di Abramo per la genesi stessa della fede, va detto che a Giobbe la vita, alla fin fine, andò senz’altro meglio: rispetto alle perdite subìte durante la sua prova, “il Signore raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto” (Gb 42, 10).

Abramo, invece, che si ritrova alla fine della vita? Dio gli aveva promesso una terra e una discendenza… e di terra di Canaan ne avrà solo il quantitativo corrispondente alla tomba di sua moglie (!), e di figli ne avrà soltanto uno legittimo.

“Gli anni della vita di Sara furono centoventisette: questi furono gli anni della vita di Sara. Sara morì a Kiriat-Arbà, cioè Ebron, nella terra di Canaan, e Abramo venne a fare il lamento per Sara e a piangerla. Poi Abramo si staccò dalla salma e parlò agli Ittiti: ‘Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi, perché io possa portar via il morto e seppellirlo’. Allora gli Ittiti risposero ad Abramo dicendogli: ‘Ascolta noi, piuttosto, signore. Tu sei un principe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel suo sepolcro’. […]
Così il campo di Efron, che era a Macpela, di fronte a Mamre, il campo e la caverna che vi si trovava e tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite passarono in proprietà ad Abramo, alla presenza degli Ittiti, di quanti erano convenuti alla porta della città. Poi Abramo seppellì Sara, sua moglie, nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre, cioè Ebron, nella terra di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale. […]
L’intera durata della vita di Abramo fu di centosettantacinque anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati. Lo seppellirono i suoi figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, nel campo di Efron, figlio di Socar, l’Ittita, di fronte a Mamre. È appunto il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti: ivi furono sepolti Abramo e sua moglie Sara.” (Gen 23, 1-6.17-20; 25, 7-10)

Come ci starei io, se dopo le peripezie di una vita intera, in cui Dio in persona più volte mi ha promesso qualcosa di enorme, mi ritrovassi alla fine con un risultato davvero striminzito, quasi ironico: un solo figlio, al quale peraltro Dio mi chiede di essere disposto a rinunciare, e un pezzetto di terra comprato per la mia tomba?

Proverei forse delusione? Mi accontenterei? Sarei amareggiato? Diventerei ateo? Mi direi che avevo capito male? Mi abbandonerei a una concezione fatalistica e ineffabile della volontà divina?

Allora perché la Bibbia dice che Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni”? (Gen 25, 8)? Perché non è morto bestemmiando? Qual è stato il segreto di Abramo?

Ricordiamoci il soprannome di Abramo: “l’Errante”. Il segreto di Abramo è stata la profonda libertà interiore rispetto alle proprie aspettative. Lui è stato sempre conscio dei suoi desideri e delle sue preoccupazioni, che non di rado l’hanno portato a sbagliare, come nella questione di Ismaele; non ha mai fatto finta che tutto andasse bene per lui; eppure è sempre riuscito ad andare oltre.

La fede di Abramo è stata la fiducia nel fatto che la visione di Dio sulla realtà doveva necessariamente essere più ampia e giusta della sua, che quindi doveva, di volta in volta, aggiustare la mira alla luce di quello che Dio gli dava (o non gli dava) nel presente.

In fondo, il suo segreto è stato sempre la fiducia nell’amore di Dio per lui.

“Obbedire al presente” significa essere pronti ogni giorno a rimettere in discussione la propria visione, per sintonizzarla a quanto Dio ci mostra oggi: ecco il grande antidoto contro una mentalità rigida e pretenziosa, il principio di una perenne giovinezza interiore!

Questo approccio alla realtà quotidiana trasforma la religiosità in fede, cioè in un rapporto reale con Dio, vissuto nella concretezza del quotidiano:

“Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.” (Eb 11, 8-12)

Il nostro problema è che anche quando finalmente scopriamo la nostra vocazione autentica, addirittura quando riusciamo finalmente a permettere a Dio di rivelarci la sua promessa per noi, non di rado rimaniamo catturati in un’immagine che è quella del compimento finale della cosa stessa, e non dei suoi inizi.

Ma le cose iniziano dall’inizio, e solo un cammino spesso tortuoso di piccoli passi quotidiani, un giorno potrà arrivare a quella pienezza che ci ha affascinati all’inizio, e che ci ha spronati a metterci in cammino. Come sempre, la tentazione più grande è la fretta: tutto e subito. La nostra debolezza, la paura e l’insicurezza che ci guidano ci inducono a desiderare che la realtà funzioni così, ma la vita ha un suo ritmo, una sua logica, una sua maturazione impercettibile… niente avviene in un solo istante e completamente.

La libertà dalle nostre immagini mentali, dalle nostre proiezioni idealizzanti, non solo ci eviterà di essere frustrati a vita, ma soprattutto ci permetterà di cogliere i germogli, gli inizi concreti di quanto Dio sta realizzando in noi e con noi.

Abramo muore contento perché sa bene che Isacco e la tomba di Sara sono l’INIZIO di qualcosa che, nelle mani di Dio, sarà inarrestabile.

“Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò. 35Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra.” (Dn 2, 34-35)

Non è un caso che proprio quando scende dal monte Moria, dopo essere stato pronto a rinunciare a Isacco, Abramo venga a sapere che suo fratello ha avuto figli (cfr. Gen 22, 20ss.): dall’ultimo di costoro, Betuel, nascerà Rebecca, la futura moglie di suo figlio, e la storia della salvezza farà un ulteriore passo in avanti. Sembrava che Isacco non dovesse avere un futuro, e invece scendendo dal monte del suo sacrificio si intravede già per lui una famiglia.

Accettare di essere poveri, cioè liberi dalle proprie aspettative, significa anche essere liberi da quanto ho già realizzato, così che le oasi non vengano confuse con la mèta. La persona interiormente libera, la persona in cammino, non solo sa riformulare costantemente le sue aspettative in ascolto del presente, ma neppure si abbarbica ai primi risultati concreti, sapendo “reinvestirli” costantemente in qualcosa che è sempre oltre, che è sempre di là da venire.

Ma cos’è, che è sempre oltre? Possibile che a un certo punto non ci si possa accontentare?

“Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.” (Eb 11, 13-16)

No: l’uomo è stato creato per non accontentarsi di nulla, finché non raggiunge Dio, come afferma con forza sant’Ignazio di Loyola descrivendo il PRINCIPIO E FONDAMENTO dell’esistenza umana.

“L’uomo è creato per lodare, fare riverenza e servire Dio nostro Signore, e, mediante questo, salvare la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo, e perché lo aiutino nel conseguimento del fine per cui è creato. Ne segue che l’uomo tanto deve usare di esse, quanto lo aiutano per il suo fine, e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono.
È necessario, perciò, farci indifferenti verso tutte le cose create, in tutto ciò che è concesso alla libertà del nostro libero arbitrio, e non gli è proibito, in modo che, da parte nostra, non vogliamo più salute che malattia, ricchezza più che povertà, onore più che disonore, vita lunga più che vita breve, e così in tutto il resto; solamente desiderando e scegliendo ciò che più ci conduce al fine per cui siamo creati.”

Questo è il “dramma amoroso” dell’uomo, che vuole infinite cose, perché nel suo fondo, spesso inconsapevole, vuole l’infinito.

“Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.” (sant’Agostino, Confessioni, X, 27, 38)

Abramo, padre e modello della nostra fede, anche nella sua morte ci è di esempio: ci invita a riconoscere il bene che “già c’è”, e a rallegrarcene, sapendo che, piccolo o grande che sia, sarà sempre e soltanto un tassello, in quel cammino complessivo che ci porterà all’unico vero bene capace di acquietarci: il godimento di Dio stesso, nella gioia intramontabile del suo Regno.

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