Mons. Felipe Arizmendi Esquivel: “La mia nomina a cardinale, un riconoscimento ai popoli indigeni”

Un berretto porpora, com’è quello “tradizionale” dei cardinali, ma al tempo stesso coloratissimo, come lo è spesso la sua mitria, in omaggio ai popoli indigeni del Messico e soprattutto del Chiapas. Nella scelta dei nuovi cardinali, assume particolare importanza quella di mons. Felipe Arizmendi Esquivel, vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas, che ha compiuto ottant’anni lo scorso 1° maggio e non sarà, dunque, un candidato “elettore”. “Questo, più che un titolo personale, è un riconoscimento ai popoli indigeni”, spiega al Sir in questa intervista.

Un berretto porpora, com’è quello “tradizionale” dei cardinali, ma al tempo stesso coloratissimo, come lo è spesso la sua mitria, in omaggio ai popoli indigeni del Messico e soprattutto del Chiapas. Nella scelta dei nuovi cardinali, assume particolare importanza quella di mons. Felipe Arizmendi Esquivel, vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas, che ha compiuto ottant’anni lo scorso 1° maggio e non sarà, dunque, un candidato “elettore”. “Questo, più che un titolo personale, è un riconoscimento ai popoli indigeni”spiega al Sir, in questa intervista.

In effetti, la diocesi di San Cristóbal de Las Casas, una delle più antiche del Messico, essendo stata fondata nel 1539, è stata negli ultimi decenni legata a una peculiare pastorale indigena, di cui sono diventati simbolo il vescovo Samuel Ruiz García e, appunto, il suo immediato successore, mons. Arizmendi, che ha guidato la diocesi fino a tre anni fa. Un’altra scelta, dunque, che guarda alle culture native e alle periferie. Tale è, infatti, il Chiapas per l’immenso Messico: lo stato più meridionale, nel quale ancora oggi i diritti delle popolazioni indigene, spesso preda di bande criminali, costrette a fuggire dai loro villaggi, sono calpestati. Il Chiapas, inoltre, in quanto Stato di frontiera, è anche l’approdo più frequente dei migranti centroamericani e caraibici che cercano di attraversare il Messico. Anche questa è una realtà conosciuta da mons. Arizmendi, che dal 1991 al 2000 è stato vescovo di Tapachula, la città che si trova quasi al confine con il Guatemala. Ma mons. Arizmendi è anche un attento osservatore e un acuto commentatore della realtà ecclesiale a trecentosessanta gradi, come si evince leggendo i suoi commenti settimanali, che vengono pubblicati con regolarità anche dal sito internet del Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano. Ecco, dunque, le sue risposte.

Come è venuta a conoscenza della nomina di Papa Francesco? Puoi dire che è stata una cosa inaspettata?
È stata una cosa totalmente inaspettata. Ho ricevuto la notizia all’alba di domenica 25 ottobre, quando recitavo la mia abituale preghiera. Alcuni amici me l’hanno detto e sono rimasto molto sorpreso.

Secondo lei, questa decisione del Papa è anche un riconoscimento della storia e delle scelte della Chiesa del Chiapas e in particolare della diocesi di San Cristóbal?
Il Papa è stato a San Cristóbal de Las Casas nel febbraio 2016 e ha potuto percepire la vita di una Chiesa che si è sforzata di essere indigena, di inculturarsi nelle culture originarie. È un processo che richiede molti anni, è stato vissuto dal mio predecessore, il vescovo Samuel Ruiz García, e ancora dai suoi predecessori. L’attuale vescovo, Rodrigo Aguilar Martínez, continua questo processo.

E quali di queste pratiche pensa possano essere ancora valide, attuali e profetiche nella Chiesa di oggi, a livello universale?
L’inculturazione della Chiesa è un mandato evangelico, poiché il Verbo eterno del Padre si è incarnato in una cultura marginale, a Nazareth, e in una lingua, l’aramaico. Pertanto, lottare affinché i popoli nativi ricevano la Messa e i sacramenti, così come la Bibbia, nella loro lingua, è un requisito permanente per la Chiesa. Questo significa dare alle popolazioni indigene il loro posto nella Chiesa.

Mons. Felipe Arizmendi Esquivel

La nomina può aiutare a riconoscere l’importanza degli indigeni e della loro cultura nel cammino ecclesiale?

Sento questa nomina come un sostegno alle popolazioni indigene.

Per questo, più che un titolo personale, è un riconoscimento a questi popoli e a tanti vescovi, sacerdoti e religiosi che servono con tutta l’anima queste comunità emarginate.

Quale sarà il suo impegno principale, una volta cardinale?
La mia vita non cambia. Continuerò come emerito, cercando di servire la Chiesa in diversi campi pastorali.

A chi è dedicata questa nomina?
Dedico questa nomina alla mia famiglia, alla mia città natale, all’arcidiocesi di Toluca, che mi ha formato, e soprattutto alle Diocesi di Tapachula e San Cristóbal de Las Casas, in Chiapas, che mi hanno formato come vescovo. E poi la dedica è tutta per i diversi popoli, per i migranti e per gli indigeni Tseltales, Tsotsiles, Ch’oles, Tojolabales e Zoques.

 

*Giornalista della Vita del popolo

 

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