Due anni sono trascorsi dallo scoppio della pandemia in Italia. Un triste anniversario che non può passare sotto silenzio e che ci obbliga a ripensare a come siamo cambiati, agli errori che abbiamo commesso, a chi se ne è andato per sempre. Due anni da quel 21 febbraio 2020 quando fu individuato il primo paziente positivo al Coronavirus. E se la situazione generale dei contagi in questo momento sta nettamente migliorando, non ne siamo ancora fuori del tutto. Ognuno ha la sua esperienza da raccontare, scritta in un periodo breve ma dilatata da una diversa concezione dello scorrere del tempo. Tante di quelle storie sono passate anche qui, su questo giornale: la paura, la confusione che regnava nei primi momenti, i dati dei bollettini che si smentivano ora dopo ora, il dolore per la morte di famigliari, amici, parenti (ad oggi le vittime sono 154.000, solo in Lombardia più di 38.000 e in Piemonte ci avviciniamo a 13.000). Ma anche le testimonianze edificanti di chi ha lottato al nostro fianco e si è speso per la cura del nostro corpo e della nostra anima: medici, infermieri, volontari, scienziati, preti che sono stati fino all’ultimo in mezzo alla comunità pur sapendo che il rischio era altissimo. Il ricordo commosso va, ancora una volta, a quei parroci diocesani che il virus si è portato via: don Enrico Bernuzzi, don Giacomo Buscaglia, mons. Rino Mariani. La lista dei decessi, in verità, si allunga con i nomi delle persone conosciute: ciascuno di voi, purtroppo, ne ha almeno uno da aggiungere. Per mesi le pagine di cronaca sono state occupate da titoli e foto di chi moriva da solo in terapia intensiva. Per mesi Il Popolo è stato, ancora di più, il settimanale della gente, nato, diffuso e letto per farci sentire parte di un’unica famiglia in Cristo e per mettere in risalto la quotidianità di paesi, scuole, luoghi di lavoro, oratori, ospedali… in cui costruiamo la città dell’uomo a immagine della città celeste. Gli approfondimenti e i “Primi Piani” pullulavano di sentimenti, emozioni, gridi d’aiuto, informazioni verificate e reali: è stato entusiasmante e utile scriverle proprio con i lettori che volevano capire, volevano sapere, affidandosi a news di prima mano e alla parola del vescovo. Dal lockdown, ai Covid Hospital, all’avvento dei vaccini, la vita vera è stata trattenuta su questi fogli e a tutti, anche ai più lontani, è arrivato un messaggio di conforto. Ci siamo ascoltati tra noi per ascoltare il Signore. Anche quando non si poteva uscire e le chiese erano vuote. Che cosa ci resta? Intanto la certezza che Lui è il nostro tutto. Poi la lezione che scaturisce da certi sbagli da non ripetere: quando si affronta una pandemia bisogna agire in anticipo e non in ritardo come è stato fatto all’inizio. Servono maggiori investimenti nella sanità, nella tecnologia e nella ricerca, altrimenti l’unica soluzione resta la chiusura. Infine, l’indicazione che si può fare un giornalismo di servizio anche su un giornale diocesano, affrontando certe questioni a viso aperto e aiutandoci a vicenda nella comprensione della realtà. In fondo, come ci ha ricordato di recente Papa Francesco, «un giornalista deve innanzitutto raccontare e questo significa non mettere se stessi in primo piano, né tanto meno ergersi a giudici, ma significa lasciarsi colpire e talvolta ferire dalle storie che incontriamo, per poterle narrare con umiltà ai nostri lettori. La realtà è un grande antidoto contro tante malattie. Abbiamo tanto bisogno oggi di comunicatori appassionati della realtà, capaci di trovare i tesori spesso nascosti nelle pieghe della nostra società e di raccontarli permettendo a noi di rimanere colpiti, di imparare, di allargare la nostra mente, di cogliere aspetti che prima non conoscevamo».
(*) direttore “Il Popolo” (Tortona)

