Venerdì Santo. Don Biancotto: “Il Crocifisso parla alla sofferenza e alle ferite dei detenuti”

Di fronte alla Croce “si sentono chiamati per nome, uno ad uno, da quell’Uomo innocente condannato a morte anche per la loro salvezza, e avvertono di avere un posto nel Suo cuore”. Il cappellano delle due carceri di Venezia sintetizza così i sentimenti dei detenuti durante la Via Crucis del Venerdì Santo, attesa e preparata ogni anno con grande cura: “Non un rito, ma vita vera”. E avverte: "Il carcere fa parte della società civile; non dev'essere qualcosa di avulso di cui ci si può dimenticare"

Casa di reclusione femminile della Giudecca - Foto Venezia News

Dolore, solitudine, abbandono. Tutto questo ha sofferto Gesù il Venerdì Santo, prendendo su di sé il peccato e il dolore dell’umanità sofferente. Un’umanità della quale fanno parte anche i detenuti, privati della libertà e degli affetti, che forse stanno iniziando a guardare in faccia il male compiuto e a percorrere lentamente un cammino di rinascita. Un universo, quello carcerario, caratterizzato da solitudine, sovraffollamento, disperazione, autolesionismo, suicidi (secondo Antigone, 23 da inizio anno), mancanza di prospettive per il dopo pena. Persone che hanno sbagliato, ma la cui dignità di uomini e donne rimane intatta.

Don Antonio Biancotto è il cappellano delle due carceri di Venezia: la casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore, 159 posti con attualmente 240 detenuti, e la Casa di reclusione femminile della Giudecca, 111 posti, con al momento poco più di 80 donne detenute. Nel corso della visita a Venezia il prossimo 28 aprile, Papa Francesco visiterà il Padiglione della Santa Sede alla 60ª edizione della Biennale, allestito fino al 24 novembre proprio nella chiesa di S. Maria Maddalena delle Convertite del carcere femminile, e incontrerà alcune detenute. E proprio presso il carcere della Giudecca, sabato 23 marzo il patriarca di Venezia Francesco Moraglia ha celebrato la messa prefestiva della Domenica delle Palme. “Il Papa desidera salutarvi ed incontrarvi – ha detto tra l’altro alle detenute durante l’omelia -. È un bel gesto, un gesto di incoraggiamento che riconosce la dignità di tutti e indica la speranza che è di fronte a ciascuna di voi e alle vostre famiglie e ai contesti che, adempiuto il momento rieducativo della pena, potrete incontrare. La speranza trasforma e ci rende migliori già adesso in un futuro che ancora non è nostro, ma che voi potete costruire giorno dopo giorno”. “Ci prepareremo al meglio alla visita del Papa che viene in nome di Cristo, ma ora – ci dice il cappellano – vogliamo concentrarci interamente sul cammino verso la Pasqua”.

Foto Patriarcato Venezia

Don Antonio, anzitutto com’è la situazione nei due istituti?

Si registra un po’ di sovraffollamento, ma il dato che emerge, soprattutto al maschile, è la presenza di molti detenuti psichiatrici con i quali è talvolta difficile rapportarsi. Anche il personale, privo di strumenti adeguati, fa fatica. Né la formazione né il luogo sono adatti; il contenimento non è il modo corretto per prendersi cura di queste persone. Nella società i soggetti socialmente e psichicamente vulnerabili sono meno visibili perché il dato si diluisce su tutto il territorio, invece

il carcere è una concentrazione di disagio e fragilità.

Quando le famiglie non ce la fanno più, ad esempio di fronte alla violenza, scatta la denuncia e finiscono in carcere persone che dovrebbero essere prese in carico in altre strutture.

Una vulnerabilità che forse doveva essere intercettata prima dal territorio…

Sì. Alcuni sono così dalla nascita; altri lo diventano a seguito dell’assunzione e dell’abuso di sostanze, o della vita sregolata che conducono. Finiscono per perdere completamente il contatto con la realtà; talvolta non si rendono neppure conto della gravità delle azioni compiute.

Gesù sulla croce ha detto: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”…

Solo il Signore può guardare in profondità e giudicare il cuore dell’uomo,

vedendo non solo quello che lo affolla nell’istante in cui commette un reato, ma anche tutto ciò che ha preceduto quell’azione e lo ha indotto ad essere debole e ad imboccare strade sbagliate. Situazioni familiari difficili, carenze affettive, traumi infantili, e poi scelte sbagliate impostando la propria vita su una concezione di falsa libertà. Molto è legato all’ambiente familiare; poi il contesto sociale fa il resto.

La Settimana Santa, ed in particolare il Venerdì Santo, come si vive in carcere?

Il 29 marzo, Venerdì Santo, a Santa Maria Maggiore faremo alle 15,30 un’azione liturgica con l’adorazione della croce; al femminile invece faremo la Via Crucis nel cortile dei passeggi, all’esterno; poi una delegazione di detenute con permesso premio uscirà portando la croce fuori dal carcere e unendosi alla Via Crucis organizzata dalle parrocchie del circondario della Giudecca. Ci sarà un passaggio di consegne, una sorta di staffetta, e la partecipazione delle nostre detenute alla Via Crucis delle parrocchie sarà un modo per rafforzare il legame che ci dovrebbe essere tra il “dentro” e il “fuori”, per dire che, comunque,

il carcere fa parte della città e della società civile e non dev’essere qualcosa di avulso di cui ci si può dimenticare.

Organizzeremo per la prima volta la Via Crucis con questa modalità su proposta della direttrice Mariagrazia Bregoli, arrivata qualche mese fa, che ha portato alla Giudecca l’esperienza vissuta mentre era alla guida del carcere di Verona.

Come si stanno preparando i detenuti a questi appuntamenti?

Al maschile il 70% del totale è straniero e buona parte di questi viene dal Maghreb; vi sono quindi moltissimi detenuti di religione islamica che stanno vivendo il Ramadan seguendo un proprio percorso. I cristiani – cattolici, evangelici, ortodossi – si sono invece preparati attraverso la Via Crucis che celebriamo ogni venerdì di Quaresima. Tuttavia, la Via Crucis del Venerdì Santo, con la lettura della Passione e il bacio alla Croce è un momento che li tocca profondamente.

Perché?

Perché la Croce di Gesù parla alle loro sofferenze.

Si stabilisce un’immediata intesa di fondo tra loro e il Crocifisso. Anch’essi, come Gesù, sfregiato dalla sofferenza e dalle piaghe, portano su di sé ferite che sanguinano: la privazione della libertà e degli affetti, la solitudine, l’abbandono, a volte la disperazione. Arrivano quasi ad identificarsi con il Cristo crocifisso. La croce parla al cuore di chi soffre, e qui dentro la Via Crucis non rischia di ridursi ad un “rito” come potrebbe accadere fuori: è “vita” a tutti gli effetti, vita e cuore che palpitano, piaghe che sanguinano dolorosamente.

“Oggi sarai con me in paradiso”. Che cosa dice ai detenuti la promessa di Gesù al buon ladrone?

È motivo di consolazione e di speranza; è un non sentirsi abbandonati ma, anzi, paradossalmente, un sentirsi liberi pur essendo in un ambiente ristretto; è soprattutto

un sentirsi chiamati per nome, uno ad uno, da quell’Uomo innocente condannato a morte anche per la loro salvezza; è avvertire di avere un posto nel Suo cuore.

A tu per tu con la Croce si apre uno spiraglio di luce sulla propria vita. Malgrado le piaghe che rimangono aperte. Del resto anche Gesù risorto conserva le piaghe, tanto da invitare Tommaso a mettervi la mano. Croce e resurrezione sono un mistero unico; un grande mistero di amore e di salvezza in grado di illuminare anche le ferite del carcere.

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