“Il 7 ottobre siamo rimasti sconvolti dalla tragedia. Mi sono svegliato verso le 5.45 di quel sabato e ho detto a mia moglie che c’era qualcosa di strano. Lei mi ha chiesto cosa intendessi; le ho risposto che, mentre ascoltavamo la radio, sentivamo gli allarmi. Tra le 6 e le 6.30 abbiamo capito che era in corso un grande attacco da Gaza, da parte di Hamas, diretto contro i villaggi dell’area. Abbiamo continuato a seguire le notizie e abbiamo visto camion con miliziani, gente armata che entrava nelle case per uccidere. In un solo giorno hanno ucciso più di 1.200 israeliani, tra cui bambini, neonati, donne, uomini, soldati. Perché? Perché tutto questo?”

(Foto ANSA/SIR)
Bahij Mansour è uno dei maggiori leader della comunità drusa in Israele, con alle spalle una lunga carriera diplomatica che lo ha portato a rivestire importanti incarichi per lo Stato di Israele, presso le Nazioni Unite, Usa, Giordania, Angola, Repubblica Domenicana, Inviato speciale per le minoranze in Medio Oriente. Attualmente è sindaco di Isfiya, villaggio a maggioranza drusa nel nord di Israele (distretto di Haifa). Parlando al Sir, a margine dell’incontro “Voci dal Medio Oriente per un futuro di pace” svoltosi a Roma nei giorni scorsi per iniziativa di “Cristiani per Israele – Italia”, Mansour ci tiene a ricordare quei tragici momenti del 7 ottobre 2023, una data spartiacque per Israele, la Palestina e tutto il Medio Oriente”.
Ambasciatore Mansour, come ha inciso il 7 ottobre sulla vita delle minoranze in Israele dove vivono drusi, cristiani, arabi, beduini, circassi, armeni, bahai ed altri?
Non tutte le minoranze hanno reagito allo stesso modo. Drusi, cristiani e parte dei musulmani all’inizio sono rimasti profondamente tristi per ciò che era accaduto. Molti musulmani erano scioccati, silenziosi, non sapevano come reagire. Le minoranze non parlano con una sola voce, ciascuna ha una sensibilità diversa. Ma il 7 ottobre ha lasciato tutti sotto shock. Quando è iniziata la guerra, molti si sono mobilitati per fornire aiuti umanitari a Gaza. Nel complesso, però, il trauma è stato collettivo, seppure vissuto su livelli diversi.

(Foto AFP/SIR)
Come reagì la comunità drusa nel Paese e in particolare nella sua città, Isfiya?
La nostra comunità comprende 21 città e villaggi tra la Galilea settentrionale e meridionale, altri nelle Alture del Golan. In totale siamo circa 156.000, di cui circa 121.000 in Israele. A Isfiya siamo circa quindicimila. Nel mio villaggio vivono cristiani, maroniti e greco-cattolici, musulmani sunniti ed ebrei e dopo il 7 ottobre ho parlato con tutti i leader religiosi e comunitari per farci trovare pronti nella eventualità di guerra. Hamas ha provocato una catastrofe non solo per gli israeliani ma anche per la popolazione di Gaza, cristiana e musulmana. So bene come hanno trattato i cristiani a Gaza durante il loro governo: imponevano regole restrittive, rendevano difficile la pratica religiosa.
La comunità drusa è spesso definita un “ponte” nella società israeliana. È così?
Sì. Nei luoghi in cui viviamo rappresentiamo un simbolo di coesistenza. Rispettiamo le altre religioni e cerchiamo di creare armonia. Aiutiamo le persone deboli, chi ha bisogno. Nel mio villaggio ci sono due chiese, una maronita e una greco-cattolica, e un antico monastero. Ho invitato anche il card. Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme. Questo è il nostro stile. Ma siamo anche soldati forti, pronti a difenderci dagli attacchi.
Lei spesso parla di “mosaico israeliano”. Che posto hanno i cristiani?
Le parlo da persona vicina alla comunità cristiana. Per anni ho diretto il Dipartimento per le questioni religiose nel ministero degli Esteri, ho contribuito a creare il Consiglio dei capi religiosi nel 2007 e sono stato coinvolto nelle visite di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sono stato anche tra i primi a incontrare Papa Francesco, tre settimane dopo la sua elezione. Abbiamo pranzato insieme a Santa Marta e ho percepito che era un uomo di pace. Sono cresciuto accanto a due chiese: i miei vicini erano cristiani. Condividiamo feste, momenti di dolore, celebrazioni, siamo come una famiglia. I rapporti tra drusi e cristiani sono eccellenti. La leadership drusa è molto legata alla comunità cristiana. A febbraio, a Nazareth, si terrà un incontro dei capi religiosi proprio per rafforzare i rapporti e aumentare la comprensione reciproca.
Da diplomatico, come giudica il ruolo e la presenza dei cristiani nella società israeliana? Secondo lei perché hanno poco spazio e poca visibilità?
I cristiani sono diventati minoranza a Nazareth, Reineh, Kafr Kanna (Cana). Quando si diventa minoranza, si tende ad abbassare il profilo, per paura di pressioni e per motivi di sicurezza. Ma se li si ascolta con franchezza, parlano con grande libertà.
Da tempo si parla di esodo dei cristiani dalla Terra Santa…
Sì. Basti pensare che a Betlemme, per esempio, c’erano 25.000 cristiani, oggi sono circa 10.000. Molti vendono le proprietà. Si tratta di un errore enorme. Se i cristiani lasciano i luoghi santi, quei luoghi saranno in pericolo, Betlemme, Gerusalemme e altri.
Serve un vero dialogo: Santa Sede e Israele devono parlarsi per creare un clima nuovo, sostenere le comunità, finalizzare l’accordo economico, garantire esenzioni fiscali ai monasteri e alle istituzioni cristiane. Forse non è il momento per una visita del Papa, ma con i leader israeliani si può riaprire il dialogo.
L’emigrazione dei cristiani è una perdita anche per Israele?
Assolutamente sì e ho avvertito il mio governo anni fa di questo fenomeno. È una perdita per i cristiani stessi e per la società israeliana. Da israeliano le dico che vorrei vedere i cristiani continuare a vivere nella Terra Santa, senza che il loro numero diminuisca ulteriormente.
Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani delle minoranze che aspirano a un ruolo nella società israeliana del futuro?
Bisogna approfondire il dialogo tra i giovani, a partire dalle scuole fino all’università. Devono incontrarsi, visitarsi, discutere, fare laboratori comuni. Devono visitare i kibbutz, i moshav, i villaggi drusi, cristiani:
conoscere gli altri è la prima condizione per costruire una società sana.
E dobbiamo dire ai giovani di non lasciare il Paese: pensano che la vita all’estero sia migliore, ma non è così. Bisogna restare nella propria terra, proteggere la propria casa, educare i figli. Si può viaggiare, certo, ma poi bisogna tornare. E i leader religiosi hanno un ruolo decisivo: chiese, sinagoghe, khalwa druse devono insegnare valori, rispetto, dialogo, non fanatismo. Il cammino è questo: armonia, dialogo, coesistenza. Questo è il vero insegnamento di pace.

