La solennità riservata alla sottoscrizione dell’accordo di pace fra Israele e Hamas ne giustifica la portata. Al di là della spettacolarità della cerimonia, alla quale hanno fatto da cornice i rappresentanti di ben 22 Paesi, fra cui la nostra Premier, l’accordo firmato lo scorso 13 ottobre a Sharm El Sheikh dal Presidente Trump, artefice dell’impresa e dai Presidenti di Egitto, Turchia e Quatar, dovrebbe rappresentare – il condizionale è d’obbligo – la principale garanzia per un piano che, fin dall’inizio, sta manifestando la sua fragilità. Un accordo peraltro che, pur non essendo ancora un “piano di pace”, come ama definirlo Trump, quanto piuttosto un accordo per il cessate il fuoco, rimane pur sempre, come da più parti sottolineato, “l’ultimo negoziato prima del baratro”. L’esigenza di porre fine a un dramma infinito ha prevalso su qualsiasi altra considerazione politica e militare. La notte dello scorso 9 ottobre, quando giunse da Sharm El Sheikh (Egitto) la notizia del raggiungimento dell’accordo, una comprensibile e incontenibile gioia si riversò su Israele – nella piazza di Tel Aviv denominata “degli Ostaggi” – e su Gaza nella spianata detta “delle macerie”.
Gli Israeliani potevano lasciarsi alle spalle il vile attentato terroristico del 7 ottobre 2023, subìto ad opera di Hamas, in cui furono uccise 1.200 persone, altre violentate e 251 prese in ostaggio e rinchiuse nei tunnel della striscia. I palestinesi potevano porre fine al lungo e doloroso calvario vissuto a causa della reazione sproporzionata di Israele, che ha provocato la morte di 67.000 persone (di cui oltre 20.000 bambini) e la distruzione di una città dalle antiche origini. Quel popolo stremato dalla fame e da malattie poteva ritornare in quello che rimane della loro terra. Un sollievo per tutti, anche se in tutti vi è la consapevolezza di essere soltanto all’inizio di un lungo e arduo percorso per la normalizzazione della situazione in Medio Oriente. “Non è ancora pieno giorno, anche se vediamo la luce alla fine di una lunga notte”, ha affermato il cardinale Pizzaballa.
Cosa ci aspetta adesso, ci si chiede da ogni parte? La storia insegna che in Medio Oriente, purtroppo, è facile fare saltare accordi a motivo, principalmente, dell’odio e dello scetticismo che caratterizzano i rapporti tra i due popoli. Ne costituisce un precedente, tra gli altri, il fallimento degli accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993 dall’israeliano Rabin e dal palestinese Arafat, che prevedevano il ritiro di Israele da talune aree della Striscia di Gaza e il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autogoverno. “Ci vogliono due generazioni, ha affermato, ancora, Pizzaballa, per pacificare gli animi”. E, tuttavia, dobbiamo crederci fortemente, nonostante i problemi che si stanno presentando fin da questa prima fase. Le difficoltà incontrate nella restituzione dei corpi delle vittime, ma anche la gestione dell’ordine a Gaza, affidato provvisoriamente dallo stesso Trump ai miliziani di Hamas; il permanere della presenza di Israele sul 53% del territorio della Striscia. Questi e altri problemi rappresentano elementi di rischio per il mantenimento della tregua.
Da qui l’esigenza di individuare una Forza di interposizione internazionale, prevista dal piano Trump, per gestire i rapporti tra Hamas e Israele e lo svolgimento di una permanente azione di accompagnamento da parte dei garanti. È necessario, cioè, che gli Stati uniti continuino a esercitare il loro ruolo persuasivo su Israele e che gli Stati arabi vigilino su Hamas. Poi verranno, se permarranno le condizioni di tregua, gli altri problemi in sospeso, fra cui la situazione della Cisgiordania, insidiata dai coloni israeliani e il percorso verso uno Stato di Palestina, cui Israele si oppone nonostante il voto favorevole espresso dalla maggior parte dei Paesi aderenti all’ONU. Solo alla fine di questo periodo di transizione potrà procedersi alla ricostruzione di Gaza, sulla quale si addensa, tra l’altro, il sospetto di interessi economici. E mentre si continua a lavorare per una giusta e permanente normalizzazione della questione israelo – palestinese, vogliamo sperare che acquistino consistenza i primi passi annunciati da Trump per il raggiungimento della pace in Ucraina.

