Parola d’ordine: incertezza. Mons. Cesar Essayan, vicario apostolico di Beirut dei Latini sintetizza così, con la sua tradizionale schiettezza, la condizione in cui versa il Libano. Il Paese dei Cedri soffre una pluriennale crisi sociale, economica e finanziaria, mai risolta anzi acuita dalla guerra al suo confine meridionale, tra Israele ed Hezbollah, che ha provocato morti, distruzione e nuovi sfollati. “A far paura – dice – non è tanto il presente, quanto il futuro”. A dare qualche speranza l’elezione, lo scorso gennaio, del nuovo Presidente della Repubblica, il comandante delle forze armate Joseph Aoun. In lui sono riposte le speranze per un piano di riforme. Tra i nodi da sciogliere, oltre la crisi economica, la presenza di circa 2 milioni di rifugiati (siriani e palestinesi) e l’arsenale di Hezbollah da smantellare. Intanto la Chiesa libanese continua nella sua opera di assistenza alla popolazione, grazie anche all’aiuto che arriva dalle Conferenze episcopali del mondo, in primis quella italiana. Attesa per l’annuncio della visita nel Paese di Papa Leone XIV.
Eccellenza, qual è oggi la situazione del Libano?
Il Libano attualmente vive in una grande incertezza a tutti i livelli, sociale, politico ed economico. Cerchiamo di capire giorno per giorno quello che potrebbe succedere. Non abbiamo certezze circa il nostro futuro che non dipende solo dalle nostre mani ma anche da quello che Israele deciderà in merito all’arsenale di Hezbollah e al prosieguo della guerra con l’Iran. In altre parole, dalla stabilità dell’intera regione.
Vede segnali di ripresa o la crisi è ancora profonda?
A livello sociale le cose non migliorano. La popolazione vive con poco, cerca di andare avanti in qualche modo. Oggi le banche permettono alle persone di ritirare un po’ più di denaro dai propri depositi, ma le risorse disponibili sono poche e non permettono all’economia di ripartire. Questa incertezza tocca l’identità stessa del Libano radicata nella sua tradizionale convivenza che però adesso è sempre più difficile. La politica non prende decisioni, i partiti fomentano la divisione che non è ciò che desiderano i libanesi.
Cosa desiderano i libanesi?
Innanzitutto, vedere qualcosa di risolto che permetta loro di vivere con dignità e pieni diritti. Niente in questo Paese è stato risolto: la giustizia è ferma, la corruzione invece è ovunque. I libanesi non hanno accesso regolare all’acqua, all’elettricità, e lamentano la mancanza cronica di carburante. I beni di prima necessità, come i medicinali sono molto costosi a causa dell’inflazione. L’Onu afferma che dei residenti in Libano, inclusi i profughi palestinesi e siriani, 4 su 5 vivono in povertà. La frustrazione è enorme e i libanesi vivono arrangiandosi.
Lo scorso gennaio il parlamento ha eletto Joseph Aoun, comandante delle forze armate, nuovo Presidente della Repubblica dopo due anni di vuoto politico: è un segnale di speranza?
Un segnale positivo, certamente. Il nuovo presidente è una persona pulita che vuole il bene del paese. Come comandante delle forze armate era considerato un leader dal popolo libanese che aveva bisogno di una persona di riferimento come lui, al di là della appartenenza politica e religiosa. Dunque, tutti speriamo in una ripresa del Paese, e attendiamo che questi segnali positivi si traducano in opere concrete per il bene del popolo. Ma finora tutte queste aspettative non stanno trovando un riscontro sul terreno. Il presidente non deve perdere il patrimonio di fiducia che il Paese ha riposto in lui e lavorare per l’unità. È chiamato a dimostrare che può cambiare in meglio la vita economica, sociale del popolo libanese.
In Libano vivono anche mezzo milione di rifugiati palestinesi e 1,4 milioni di siriani fuggiti dalla guerra scoppiata nel 2011. Un’emergenza che sembra non avere fine.
Di questa emergenza se ne parla poco. I rifugiati hanno bisogni immensi e accessi limitati ai servizi di base. Adesso ci sono siriani che stanno rientrando nel loro Paese dopo la caduta di Bashar Al Assad, altri che stanno tornando, ma sui numeri manchiamo di informazioni precise. Anche il loro futuro è incerto. La guerra a Gaza e l’occupazione israeliana della Cisgiordania fanno sì che i palestinesi che sono qui in Libano non sappiano dove andare. Quelli nati in Libano non hanno mai visto altro che il loro campo profughi e poco altro. Non sanno cosa sia la Palestina e il rientro nella loro terra di origine rimane una cosa molto teorica.
A proposito di rientri, ci sono ancora libanesi che devono tornare nelle loro case al sud, al confine con Israele, dove si è combattuto il conflitto tra l’esercito israeliano e Hezbollah?
Sì, ci sono tanti abitanti del sud del Libano che non riescono ancora a rientrare perché non è sicuro. Ci sono ancora droni a sorvolare l’area perché Israele vuole farla finita con l’arsenale di Hezbollah. Ma nessuno sa dove siano effettivamente queste armi, se esistono o meno. In ogni caso lo smantellamento dell’arsenale di Hezbollah e la sua consegna all’esercito libanese è un affare interno al nostro Paese. Non vorrei che il tema delle armi di Hezbollah sia un pretesto per Israele per restare nel sud del Libano.
In questo senso preoccupa il fatto che, dopo oltre quattro decenni di presenza nel Libano meridionale, la missione Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) si avvia a ritirarsi entro la fine del 2027?
Vedremo se in questo lasso di tempo si arriverà ad una soluzione giusta e sostenibile della crisi per tutti. Certo è che, se la partenza di Unifil dovesse trasformare il Libano meridionale in una terra di nessuno, allora avremo davanti un altro grave problema. Chi controllerà questa zona? Ci saranno altre forze? Forse americane o di Paesi arabi? L’incertezza è enorme. Fino a quando ci sarà Unifil il sud del Libano sarà sotto gli occhi della comunità internazionale. Ma dopo chi rendiconterà al mondo quello che accade in questo strategico lembo di terra?
Che cosa può fare la comunità internazionale per il Paese dei Cedri?
La comunità internazionale prima di tutto deve svegliarsi. Ma l’impressione è che non voglia farlo ed è un brutto segnale. Pensiamo solo a quanto sta accadendo a Gaza. Davanti a tanti morti e tanta distruzione, nessuno fa nulla per fermare questa guerra. Come libanesi ci chiediamo se la comunità internazionale non sia d’accordo con quanto sta avvenendo a Gaza. Per quanto riguarda il Libano, invece, noi vogliamo che il nostro Paese mantenga la sua integrità territoriale così da permetterci vivere in pace nelle nostre diverse comunità. Vogliamo continuare ad essere quel laboratorio di convivenza pacifica che siamo sempre stati perché prima o poi il mondo ne avrà bisogno. Ma sappiamo anche quanto grande sia la nostra debolezza.
Eccellenza, in che modo la Chiesa può aiutare il Libano a rialzarsi?
La Chiesa cattolica sta giocando un ruolo importante. La diplomazia vaticana non si ferma e sta aiutando il nostro piccolo paese a stare lontano da tutte le guerre che abbiamo intorno a noi. Al tempo stesso come Chiesa in Libano, ci dobbiamo prodigare per arrivare alla pace interna, alla coesione sociale, vero antidoto per non cadere nella tragedia di una nuova guerra civile. Siamo attivi con i nostri servizi sociali, sanitari, scolastici. Noi teniamo aperte le scuole in ogni zona del Libano assicurando l’istruzione anche a chi non può permettersela. Non siamo una Chiesa ricca, le difficoltà economiche coinvolgono anche le nostre comunità locali ma stiamo realizzando progetti per mettere i nostri giovani in condizione di lavorare. Ma serve che lo Stato faccia la sua parte. Ma vorrei dire una cosa…
Mi dica…
Voglio ringraziare tante Chiese che nel mondo ci sostengono e ci aiutano. La Conferenza episcopale italiana è tra queste. Ci è sempre vicina con progetti, azioni di solidarietà. Ma riceviamo aiuti anche da parrocchie, associazioni e ong che gravitano nel mondo cattolico e della Cooperazione italiana e questo ci permette di arrivare a tantissime persone libanesi e rifugiati. Come libanesi sentiamo forte che siamo nel cuore degli italiani.
Siete nel cuore anche dei pontefici. Si parla con insistenza di un probabile viaggio di Papa Leone XIV in Libano. È così?Aspettiamo che sia il Papa ad annunciare questa visita. Noi, intanto, ci prepariamo ad accoglierlo. Quando verrà ci faremo trovare pronti.

