Michael Petro, 30 anni, nato a Boston, è Gesuita in formazione, attualmente è impegnato con il Jesuit Refugee Service in Libano e responsabile del Centro migranti di Beirut.
Come è nata la sua vocazione e da quanto tempo è in Libano?
La mia vocazione mi sembra come un accordo musicale – tante piccole note che compongono un unico suono armonico. All’inizio è nata grazie alla cura della mia famiglia e alla vita spirituale che i miei genitori hanno cercato di coltivare, attraverso i libri di teologia che mia madre, allora studentessa, teneva in casa, e attraverso la vita della nostra Chiesa locale. In seguito, ho iniziato a vedere i Gesuiti schierarsi con i più emarginati, testimoniando l’amore di Dio nel mondo. In tanti piccoli luoghi del mondo, lentamente, nel corso della mia vita, la mia vocazione ha preso forma.
Sono stato inviato in Libano in un modo molto “gesuitico”: sono entrato in una riunione pensando di essere destinato a proseguire gli studi, e ne sono uscito con una missione per il Libano! È stato un cammino entusiasmante, difficile e pieno di grazia.
Vivo in Libano, a periodi alterni, ormai da 3 anni: inizialmente per studiare la lingua, oggi per il mio ministero con i lavoratori migranti e i rifugiati.
La popolazione libanese è messa a dura prova dalla crisi economica, dalla frammentazione sociale e religiosa, e ora anche dalle conseguenze della guerra di Israele contro Hezbollah: il dramma degli sfollati, dei feriti e di comunità sempre più lacerate. Dal suo punto di vista, quali sono oggi le sfide più urgenti?
Il Libano ha affrontato anni di crisi successive, molte delle quali hanno la stessa radice. Corruzione e clientelismo erodono l’efficacia dello Stato e la fiducia della popolazione, e la povertà resta un problema grave per molti libanesi.
Anche se il mio servizio è con migranti che vengono qui per lavorare, vedo che purtroppo molti libanesi fanno fatica a restare in Libano. Ora il crollo del sistema di aiuti internazionali sta mettendo in ginocchio molti servizi, sia per i cittadini che per i rifugiati.
Il Libano ospita numerosi rifugiati provenienti dalla Palestina e dalla Siria, ma il vostro centro lavora con migranti di ogni nazionalità. Che tipo di interventi svolgete?

(Foto Michael Petro)
Lavoriamo con migranti provenienti da moltissime parti del mondo. Arrivano in Libano dalle Filippine, dallo Sri Lanka e da altre zone del Sud Asia, dall’Africa – dalla Nigeria al Madagascar. Molti vengono per cercare lavoro e per mandare a casa ogni dollaro guadagnato. Alcuni hanno impieghi dignitosi, ma molti sono stati ingannati sulle condizioni che avrebbero trovato in Libano: i loro diritti legali sono poco tutelati dal sistema lavorativo chiamato Kafala, e di conseguenza tanti subiscono sfruttamento e abusi. Accogliamo anche numerosi rifugiati, provenienti soprattutto da Sudan e Sud Sudan, che vivono in una sorta di limbo in Libano. Cerchiamo innanzitutto di creare momenti in cui migranti e rifugiati possano avere anche una vita sociale e relazionale: gruppi di preghiera, incontri comunitari, tornei sportivi, corsi di lingua, programmi artistici – tutte attività guidate dalle stesse comunità di migranti negli spazi che mettiamo a disposizione. Offriamo inoltre servizi più mirati: aiuti di emergenza, assistenza di operatori sociali, sostegno legale e supporto psicologico per chi ne ha bisogno.
Lo scorso febbraio avete ricevuto la visita del cardinale Czerny, che ha sottolineato lo spirito di fraternità del Centro, evidenziando come le persone si sentano accolte come in una grande famiglia, in cui tutti cercano di fare la propria parte. Immaginiamo, però, che non manchino ostacoli, difficoltà e momenti di scoraggiamento…
La visita del cardinale Czerny ci ha certamente dato grande forza, ma quest’anno è stato in effetti molto difficile. Proprio mentre la guerra sembrava concludersi, i tagli drastici alla cooperazione internazionale e agli aiuti umanitari hanno colpito duramente i migranti, rendendo molto più difficile garantire l’assistenza necessaria. Vedere i cuori chiudersi proprio nel momento di maggiore bisogno è stato scoraggiante.
Come Chiesa, siamo la casa alla quale molti migranti bussano quando sono in difficoltà. Questa fiducia è una grazia, ma anche una grande responsabilità: ascoltiamo tante storie di dolore, dalla separazione dalle famiglie, allo sfruttamento o all’abbandono, fino alle difficoltà normali della vita quotidiana.
Papa Francesco ha spesso lanciato appelli per la pace in Libano. Lo scorso giugno Papa Leone XIV ha ricevuto il nuovo presidente, e nell’agosto scorso, in occasione del quinto anniversario dell’esplosione al porto di Beirut, ha definito il Libano “amato e sofferente”. Quale altro messaggio vorrebbe rivolgere alla comunità internazionale, e in particolare alla Chiesa e alle comunità italiane che sostengono l’impegno di sacerdoti, suore e di tutta la Chiesa locale?

(Foto Michael Petro)
Anzitutto, il Libano ci offre l’immagine di una Chiesa che sta sia alle frontiere che al cuore del cristianesimo. Fin dai tempi di Gesù a Tiro e Sidone, qui i cristiani hanno avuto una casa, e la storia cristiana in Libano è ricchissima. È anche un luogo dove i cristiani vivono in mezzo a grande diversità: altre religioni – sciiti, sunniti e drusi – e una straordinaria varietà interna di comunità cristiane, dalle tante espressioni ortodosse ai numerosi riti cattolici.
Il Libano è quindi un luogo in cui la Chiesa può stare allo stesso tempo al cuore e alle frontiere.
Sostenendo i cristiani in Libano, dobbiamo ricordare questo doppio ruolo. Inoltre, vorrei sottolineare che mentre celebriamo questa settimana il Giubileo dei Migranti, è importante ricordare che la Chiesa in Libano non è fatta soltanto dei riti orientali. Molti migranti – filippini, srilankesi, keniani e tanti altri – sono qui. Fanno parte della Chiesa, membri attivi del Corpo di Cristo, non solo destinatari della sua cura.
Può raccontarci storie, incontri, testimonianze che confermino che “Spes non confundit” e che il “Paese dei cedri” – che per secoli ha irradiato saggezza, cultura e spiritualità – saprà resistere anche a questa tempesta e tornare a essere un messaggio universale di pace e fratellanza?
Quando la guerra è scoppiata in Libano l’anno scorso, una famiglia migrante della nostra parrocchia ha iniziato a preoccuparsi. Vivevano in un quartiere che probabilmente sarebbe stato colpito duramente dai bombardamenti. Una sera tardi, la madre mi chiese al telefono se lei e i suoi figli avrebbero potuto restare in chiesa nel caso le cose fossero peggiorate. Io risposi di sì, pensando che avremmo trovato presto un altro posto per loro. “Bene,” disse. “Siamo già qui”. Guardai fuori dalla Comunità gesuita e li vidi scendere da un taxi con tutte le loro cose, ed entrare nella chiesa buia. Mi prese l’ansia! Non avevo ancora chiesto il permesso al superiore, e non eravamo pronti a gestire accoglienze! Ma quando espressi le mie preoccupazioni a un confratello, lui rispose: “Non preoccuparti. La Chiesa è fatta per questo”. Ed era vero. Grazie al lavoro del Jrs, la nostra chiesa ha ospitato circa 180 persone nei cinque mesi successivi di guerra: famiglie numerose, madri sole, neonati, giovani uomini in fuga dalla violenza del Sud. Poiché erano migranti e rifugiati già prima della guerra, non avevano altro luogo dove andare. Subito i volontari della parrocchia sono accorsi per aiutare, gli studenti della pastorale universitaria hanno organizzato lezioni per i bambini, e molti altri hanno dato una mano, superando divisioni religiose e identità nazionali.
Questa esperienza mi ha donato nuove immagini del Regno di Dio: fragile eppure pieno di vita, immerso nelle tenebre ma luminosissimo. La Chiesa è fatta per questo.

