A Roma i cattolici di lingua ebraica. P. Zelazko: “Siamo un ponte tra società e Chiesa”

Il Vicariato di San Giacomo, che riunisce i cattolici di lingua ebraica in Israele, celebra i suoi 70 anni con un pellegrinaggio giubilare a Roma. Guidati da padre Piotr Zelazko, i fedeli hanno pregato in ebraico nelle basiliche papali, incontrato Papa Leone XIV e ribadito la missione di ponte tra società ebraica e Chiesa

(Foto Vicariato san Giacomo)

“Un anno interamente dedicato a celebrare i 70 anni del nostro vicariato e che abbiamo voluto inaugurare con il pellegrinaggio giubilare che ci ha visto arrivare a Roma per aderire all’invito di Papa Francesco contenuto nella sua Bolla di Indizione. Oltre ad essere stato un viaggio arricchente a livello spirituale, è stato anche un tempo per esprimere la nostra gratitudine a Dio per il vicariato, per i suoi fondatori che hanno avuto la visione profetica di riprendere a pregare in ebraico, ancora prima del Concilio Vaticano II”. Padre Piotr Zelazko è il vicario patriarcale del ‘Vicariato di San Giacomo’, fondato nel 1955, che comprende sette comunità cattoliche di lingua ebraica in Israele. Dall’11 al 19 agosto ha guidato un gruppo di 35 pellegrini accompagnandoli, in particolare, nelle quattro basiliche giubilari di San Pietro, San Paolo fuori le mura, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, dove sono state celebrate messe e tenuti momenti di preghiera. Non sono mancate le visite ai luoghi storici di Roma. “Abbiamo pregato in ogni luogo in ebraico, abbiamo celebrato le messe per la prima volta nella storia in alcune chiese in ebraico” dice al Sir il vicario. Particolarmente significativa è stata la visita alle Catacombe di San Callisto dove il gruppo ha fatto memoria dei primi cristiani e riflettuto sulla chiamata alla missione.

(Foto Vicariato san Giacomo)

Da minoranza a ponte. A riguardo padre Zelazko ricorda:

“Siamo una minoranza che cerca di essere un ponte tra la società ebraica e la Chiesa”.

“In questi giorni di pellegrinaggio abbiamo pregato per chi dei nostri è rimasto a casa, per la pace, per la liberazione degli ostaggi, per tutte le vittime di questo conflitto. Ci avviamo verso i due anni di guerra e siamo molto preoccupati. Seguiamo ciò che accade con lo spirito di chi vuole stare vicino a chi è nel dolore per cercare di dargli un qualche conforto”. Come nel caso della famiglia di Alon Ohel, un giovane ostaggio ancora nelle mani di Hamas. “Sono in contatto con i genitori di questo giovane adesso di 24 anni, rapito il 7 ottobre al Nova Festival. Alon – afferma il vicario – ha il volto di tutti gli ostaggi. Capita di pregare insieme al suo papà e alla sua mamma, non sono cristiani ma siamo vicini spiritualmente”.

Pregare insieme è, per padre Piotr, anche un modo per “rimanere fuori dal conflitto, dalla politica e dalle dimostrazioni. La nostra missione – ribadisce – è stare con la gente e non fare politica”.

Il pellegrinaggio giubilare, rivela il vicario di origine polacca, “ci ha donato di vivere un tempo privilegiato immersi nel cuore della Cristianità, lontano dalla devastazione. Abbiamo respirato l’aria di un altro paese, un’aria di pace, senza guerra, senza allarmi aerei. I nostri fedeli hanno vissuto la propria fede insieme con tanti altri cattolici da tutto il mondo”.

 

(Foto Vatican News)

Pellegrini di speranza. Il ritorno a casa, adesso, da “pellegrini di speranza” come recita il motto del Giubileo e con la benedizione di Papa Leone XIV, incontrato al termine dell’udienza del 13 agosto. Sono ancora vive, nella mente dei pellegrini, le parole del Pontefice. Un messaggio forte che, dice il Vicario, “sottolineava che il male non ha l’ultima parola. Un potente promemoria per tutti i fedeli in cerca di speranza e rinnovamento. Al Papa ho donato la nostra medaglia dei 70 anni del Vicariato e nel chiedergli la benedizione, gli ho detto di non dimenticarci, perché anche noi, in modo involontario, siamo coinvolti da questo conflitto. Ma ho voluto anche ribadire tutto il nostro impegno nel testimoniare la speranza che viene dal Vangelo di Gesù. Come cristiani dobbiamo vedere nell’altro il nostro prossimo e non dimenticare che, all’interno di ogni conflitto, ci sono uomini e donne che hanno pari diritti e dignità”.

“Come cattolici di espressione ebraica non siamo numerosi, ma se ognuno di noi porta questa testimonianza ai suoi alla sua famiglia, ai luoghi dove lavora o studia, forse questo potrà aiutare a cambiare il mondo”.

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