Qualsiasi discorso attuale su Israele dovrebbe partire dalla sua fondazione. Non ci riferiamo alla sua origine quadrimillenaria, a quegli inizi del popolo d’Israele, che continua comunque a vivere, spiritualmente compatto, in Palestina (6 milioni) e in altre parti del mondo (in tutto 15 milioni), unico a mantenere la sua identità specifica di “nazione” e di “religione” ebraica; ma alla sua costituzione come stato nel secondo dopoguerra, varato dai vincitori e dalle nazioni del mondo nel loro complesso, come “risarcimento” dell’Olocausto, il più grande micidiale “genocidio” della storia dell’umanità, architettato diabolicamente esattamente su base “razziale”. Fu allora che si opposero a quel ragionevole disegno risarcitorio i Paesi arabi confinanti rifiutando il principio dei “due Stati e due popoli” stabilito dall’Onu e scatenando il primo conflitto vero e proprio tra “conterranei”, che poi si replicò, sostanzialmente senza sosta, fino ai nostri giorni.
Esortava Papa Leone XIV, sabato 14 giugno al termine dell’udienza giubilare, invitando tutti i governanti, tutti i popoli e tutti gli uomini a lavorare per la riconciliazione e la pace: “Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell’altro. È dovere di tutti i Paesi sostenere la causa della pace, avviando cammini di riconciliazione e favorendo soluzioni che garantiscano sicurezza e dignità per tutti”: chiedeva ancora una volta un impegno collettivo per liberare il mondo dalla “minaccia nucleare”, attraverso “un incontro rispettoso e un dialogo sincero”.
Ma qui è il punto discriminante: l’Iran e i suoi satelliti – Houthi, Hamas, Hezbollah, ecc. – “minacciandone” appunto l’esistenza, perseguono deliberatamente, dichiaratamente, pubblicamente, la distruzione dello stato d’Israele e l’eliminazione del popolo ebraico. Stante la dissociazione pressoché universale dalle operazioni “antiumanitarie” a Gaza – che provocano ovunque rigurgiti di antisemitismo, scopo ben studiato e risultato perseguito della strage del 7 ottobre, trabocchetto in cui è caduto il governo israeliano nella vana illusione di stroncare totalmente Hamas, fin troppo radicato nella popolazione palestinese, che ha volutamente soggiogato e sfruttato -, pare comprensibile l’ira scomposta di Netnyahu e della nazione ebraica contro l’Iran che tesse i fili della condanna a morte di Israele con tutte le sue trame e arricchendo da tempo uranio oltre ogni limite, per giungere all’arma decisiva dell’agognata distruzione. Mentre attendiamo ansiosi e speranzosi la fine almeno di qualche guerra che divampa attorno a noi, siamo costretti a vederne sorgere esplicitamente un’altra. E, paradossalmente, a constatare l’intreccio perverso che si instaura proprio tra quella ora scoppiata e la prima – in questi tempi – che sta martoriando la nostra Europa.
Infatti, ci tocca vedere che unico “mediatore” tra Israele e Iran potrebbe essere quel Putin che intrattiene rapporti con l’uno e con l’altro, ricavandone congrui vantaggi politici (in Israele vivono 1 milione di ebrei russi) o militari (i famosi droni iraniani…). Un tale ruolo sembra riconoscerglielo l’amico Trump, che abbandona, snobbandone principi e risoluzioni, il G7 in Canada e si affretta a sua volta a minacciare gli ayatollah, offrendo comunque al dittatore russo un’opportunità di inserimento in quello scacchiere. Evidentemente, ahimè, in cambio di una mano libera in Ucraina! È quanto si prospettava nei primi giorni di questa settimana, mentre infuriavano gli attacchi degli israeliani su Teheran e dintorni e degli iraniani su Tel Aviv e dintorni, facendo prevedere tanti giorni ancora di distruzione e di morte.
Molti concordano sul fatto di non lasciar costruire a Khameney l’arma atomica, ma non manca chi (tra questi appunto l’amico Putin) avalla “ingenuamente” la teoria che l’arricchimento di uranio in corso, senza sosta, sia solo a scopi civili, quando appare chiara l’intenzione dei suoi artefici. Dunque, si arriverà a un compromesso accettabile per tutti? Quando e come? Ma se a Teheran (e satelliti) non c’è reale resipiscenza sulla volontà di eliminazione di Israele – come hanno convenuto realisticamente, invece, altri Stati arabi e musulmani della regione – a nulla varrà ogni accordo. La sindrome da accerchiamento di Tel Aviv – e degli ebrei nel mondo – continuerà a ispirare la filosofia e la prassi dei governi di quel Paese e la sensibilità di quel popolo, anche se dovesse essere defenestrato Netanyahu, incredibilmente determinato e spietato fino al parossismo.
Riconoscere l’esistenza dell’altro e astenersi dal minacciarla con parole e opere è il primo basilare principio della convivenza tra i popoli, come tra le persone.

