Diciamocelo: un Natale senza regali non ci sembra un Natale. Anche piccoli, semplici, ma ci devono essere per poter dire: “Buon Natale!”. Eppure, quando i missionari, dagli angoli dei cinque continenti, raccontano come vivono la festa della natività di Gesù con le loro comunità di fedeli, il riferimento allo scambio dei regali è completamente assente. D’altronde, chi ha scoperto il vero significato del Natale non ha dubbi: indispensabili non sono né i regali, né gli addobbi, né la tavola imbandita della vigilia, quanto, piuttosto, saper celebrare la nascita di Gesù e fare tesoro del suo messaggio. E cioè che Gesù ha scelto di farsi ultimo tra gli ultimi. Ecco il vero significato del Natale. Tutto il resto ben venga, ma non è necessario. Insomma, è Natale anche senza regali, senza addobbi e senza tavole imbandite.
“Anche Gesù è stato un migrante”. Don Giampiero De Nardi, missionario salesiano che ha vissuto per anni in Guatemala, spiega così la festa della natività del Signore: “Il Natale ci viene a ricordare che Gesù ha scelto di farsi ultimo tra gli ultimi. Una scelta difficile e impegnativa”. Il missionario ricorda che il Bambino è nato in una stalla con gli animali, perché non c’era posto altrove, “anche perché probabilmente i costi delle locande erano ben fuori dalla portata delle povere tasche di Giuseppe”. E poi, ancora piccolo, Gesù è stato costretto con la sua famiglia “a scappare dalla sua terra perché in pericolo di vita, come purtroppo capita a tanta gente ai giorni d’oggi”. Quindi anche lui è stato un migrante, ha raggiunto l’Egitto, lontano dalla sua città d’origine. “Il Natale – conclude don De Nardi – ci insegni a scegliere gli ultimi, a ‘toccarli’, a farci prossimi. Ci insegni a riscoprire la bellezza della semplicità”.

(Foto Missio)
In Mongolia come si dice “buon Natale”? In Mongolia, il Paese asiatico dove i cristiani sono il 2% della popolazione e, tra questi, i cattolici sono poco più di mille, la Chiesa è molto giovane. Qui solo nel 2002 è stata creata la prima prefettura apostolica, oggi guidata dal cardinale Giorgio Marengo, missionario italiano. I cattolici della Mongolia vivono il Natale in modo davvero essenziale: basti pensare che il 25 dicembre non è neppure un giorno di festa per il Paese, quindi i bambini vanno a scuola, i genitori a lavorare e i negozi e gli uffici sono aperti. Ma i cristiani festeggiano comunque il Natale. Come? Si ritrovano nella cappella, allestita in una gher (la tenda tradizionale della Mongolia) al tepore della stufa accesa. Qui i ragazzi rappresentano la scena della natività del Signore e i fedeli celebrano insieme la messa di Natale. Le temperature gelide non cancellano la possibilità di ritrovarsi insieme, sebbene i venti invernali spesso costringano tutti a non uscire. Nelle steppe innevate si incontrano renne, sì, ma non trainano la slitta di Babbo Natale: vengono cavalcate sul dorso, con una sella, e aiutano negli spostamenti. Il fatto che la festa della nascita di Gesù non faccia parte della cultura di questo Paese è dimostrato anche dalla mancanza, nella lingua mongola, di un’espressione che esprima l’augurio di “buon Natale”. È vero che Gesù nasce per tutti, ma la Chiesa in Mongolia ha pochi anni di vita e quindi è stato necessario inventare un vocabolario di espressioni di fede, completamente assente fino agli inizi del secolo scorso. “Per questo motivo, i semplici auguri di Natale, cosa scontata per chi vive in Europa, diventano un linguaggio nuovo per chi, battezzato, vive in Mongolia”, spiega padre Ernesto Viscardi, missionario della famiglia religiosa della Consolata, qui dal 2004. Nella lingua mongola, dice il sacerdote, “buon Natale” si dice con un giro di parole: “Auguri per la festa del giorno in cui Gesù Cristo è nato”.

(Foto Archivio Comunità religiosa intercongregazionale di Haiti)
Ad Haiti Natale non è solo il 25 dicembre. Nell’isola del Mar dei Caraibi che è uno dei Paesi più poveri dell’America Latina, la miseria è così diffusa e radicata che è molto pericoloso anche soltanto camminare per strada: chiunque può entrare nelle mire delle gang, bande criminali che scippano, rapiscono e per le quali la vita vale meno di qualche spicciolo da rubare. Purtroppo in Haiti c’è una grave crisi economica, sociale e politica da anni, che si sta aggravando sempre di più. Anche i terremoti non lasciano in pace questa terra: due sismi distruttivi, uno del 2010 e uno del 2021, hanno raso al suolo intere città. Qui, fino allo scorso anno, abitava una comunità intercongregazionale di suore missionarie: tre religiose inserite nella parrocchia di Môle Saint Nicolas, nel Nord-Est dell’isola, che vivevano in mezzo alla gente del posto e si prendevano cura degli ultimi. Ecco cosa raccontano del loro Natale in Haiti: “Soprattutto il primo anno, è stato difficile percepire l’atmosfera natalizia, pensando a quella a cui siamo abituati in Italia. Da noi il Natale è sinonimo di freddo, neve, regali, luci. Qui, invece, niente di tutto questo: nella gente non c’è il senso dell’attesa, se non quella di trovare qualcosa per andare avanti”. Le suore raccontano di aver preparato il Natale pregando con la Novena “che ci ha aiutate a puntare sull’essenziale; un presepe africano e qualche segno natalizio sono stati i segni che ci hanno accompagnato”. Ma in Haiti festeggiare il Natale significa partecipare alla celebrazione eucaristica della vigilia: “È stata così lunga – scherzano le suore – che i pastori e gli altri personaggi si sono addormentati, risvegliati non dagli angeli, ma dal canto finale!”. Al termine non c’è stato nessuno scambio di auguri tra le persone, ma la gente è ritornata alle case illuminate solo dalla luna. Dalle missionarie arriva una domanda: “L’annuncio di gioia di Dio che si fa Bambino sarà arrivato alla nostra gente che vive in condizioni di povertà estrema, in cui fame e miseria non fanno sconti neppure a Natale?”. Le missionarie si sono risposte “che, fortunatamente, il Signore non si annuncia e non arriva solo il 25 dicembre… Egli affida a noi la missione di annunciare ogni giorno il suo amore ed essere testimoni della sua presenza, sempre”.

(Foto Filippo Perin)
In Etiopia Natale è fare festa insieme. Don Filippo Perin è un missionario salesiano che opera a Lare, in Etiopia. Quando arriva la Vigilia di Natale, tutti i giovani dei villaggi vicini (Kubri, Pilual, Gok, Thia jak e Quanual) giungono a Lare, il centro della comunità, per una mattinata di canti condivisi, per sintonizzare le voci. Poi nel pomeriggio arriva il resto dei fedeli dalle varie cappelle e “andiamo tutti insieme per le vie della città cantando e suonando i vari tamburi per dire che è Natale”, racconta don Filippo. Che prosegue: “Con alcuni cori delle altre chiese ci incontriamo davanti al capo villaggio per un saluto e per una preghiera insieme; infine verso sera, dopo una camminata estenuante, ci sono già 40 gradi, tra sole, polvere e canti, torniamo alla nostra chiesa per celebrare la santa messa di Natale”. Non c’è da stupirsi che a Lare nel periodo di Natale la temperatura sia alta: qui, infatti, siamo nella fascia tropicale del pianeta. Ogni anno, dopo la messa della vigilia, c’è un momento di cena tutti insieme: grandi pentoloni di pasta con sugo di pomodoro, cipolle e tante patate. Dopo, ognuno cerca un posto per passare la notte: chi nei saloni, chi in chiesa, chi sotto un albero, tutti cercano di dormire con quello che si sono portati. “Il giorno di Natale – continua il missionario – celebriamo la santa Messa all’aperto, dato il numero elevato di persone, con tanti battesimi, prime comunioni e cresime”. C’è sempre la presenza del vescovo e la messa dura più di quattro ore, ma nessuno sente la stanchezza né tantomeno la noia. A seguire danze, canti e infine il pranzo che tutti aspettano. “Compriamo due mucche e facciamo tanta polenta, così che ognuno possa avere un bel piatto!”.
*redazione Popoli e Missione e Il Ponte d’Oro

