“Pace, pace, pace!”: dal Sermig il grido di Olivero per un mondo nuovo

“Pace, pace, pace!”. La voce di Ernesto Olivero arriva dal Sermig come sempre: pacata, quasi timida, eppure forte, fortissima. E decisa. “Quanto sta accadendo tra Israele e Hamas è qualcosa di indicibile. Non riesco a darmi pace. È tutto orribile e inumano. Eppure accade. Il mondo deve davvero guardarsi allo specchio e ritrovare la sua umanità. Nessuno deve essere nemico”

(Foto ANSA/SIR)

“Pace, pace, pace!”. La voce di Ernesto Olivero arriva dal Sermig come sempre: pacata, quasi timida, eppure forte, fortissima. E decisa. “Quanto sta accadendo tra Israele e Hamas è qualcosa di indicibile. Non riesco a darmi pace. È tutto orribile e inumano. Eppure accade. Il mondo deve davvero guardarsi allo specchio e ritrovare la sua umanità. Nessuno deve essere nemico”.
Poi c’è la preghiera e la sua potenza. La Cei ha proclamato il 17 ottobre come Giornata nazionale di digiuno, preghiera e astinenza per la pace e la riconciliazione.
“La preghiera è determinante. Ed è bellissima l’intenzione adottata per le Messe di domenica 15 ottobre nel passaggio in cui si dice ‘Padre misericordioso e forte: tu non sei un Dio di disordine, ma di pace’.Non disordine, non odio, non guerra, ma pace a partire da ognuno di noi”.

Olivero, lei parla da un luogo che era una fabbrica di armi e che dal 1983 è fabbrica di pace. Voi qui ogni giorno fabbricate per davvero la pace. Eppure, il mondo continua ad essere in guerra.
È una contraddizione solo in apparenza. Proprio perché il mondo continua ad essere in guerra, noi vogliamo continuare a difendere le ragioni della pace. Non significa essere dei sognatori, delle persone di belle speranze, ma fare di tutto perché si aprano dei canali di dialogo e di incontro per costruire una nuova mentalità.

È un’utopia?
No, è qualcosa che si può fare, ma non a parole. Serve mettersi in gioco con le proprie scelte di vita, con i propri ideali, con la propria passione ostinata. All’Arsenale cerchiamo di fare così. Tutto è nato dall’incontro con Giorgio La Pira e la profezia di Isaia. L’annuncio di un tempo in cui le armi non sarebbero state più costruite ci cambiò la vita. Ci siamo detti: perché no? Qualcosa è avvenuto. Non siamo gli unici a desiderare un mondo così, molti ci credono e si impegnano in prima persona. Forse fanno meno rumore di chi investe sulla guerra, ma sono profezia di una pace possibile.

Torniamo a quanto sta accadendo tra Israele e Hamas.
La situazione è complicatissima e non ci sono soluzioni facili e immediate. Dico solo che ha ragione Papa Francesco: in quella terra, che ricordiamoci è la Terra Santa, non c’è bisogno di guerra ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio di dirsi e sentirsi fratelli.

Ma come fare quando i fratelli si sentono nemici?
Credo che la chiave di tutto sia riconoscere nell’altro il proprio volto, pronti a dire no in modo molto chiaro al terrorismo e alla violenza, ma anche ad ogni violazione dei diritti umani. Nella nostra esperienza abbiamo capito che l’amicizia e la condivisione della sofferenza possono essere un terreno di incontro. All’Arsenale della Pace arrivano continuamente persone che hanno provato sulla loro pelle la tragicità della guerra e della violenza. Sperimentiamo ogni giorno quanto il male faccia male. Ognuno è accolto, rispettato, ma a tutti è chiesto di rispettarsi a vicenda, di rispettare ognuno il dolore dell’altro, di mettere al centro la vita umana e la sua sacralità. Quando questo avviene, anche un nemico si disarma.

È difficile applicare tutto questo in situazioni in cui a parlare prima di tutto sono le armi.
Certo che è difficile, ma occorre provarci, dobbiamo ostinatamente cercare la pace. Da sempre sappiamo che il cammino della riconciliazione è complesso, ma va sostenuto e incoraggiato, richiede tempo e dedizione. Credo che il ruolo delle organizzazioni internazionali diventi ancora più importante: è necessario raggiungere la pace garantendo il dialogo, i diritti di tutti, senza prevaricazioni, senza violenze. Con un sogno a cui tendere: un mondo in cui le armi non saranno più costruite.

Prima Russia e Ucraina, adesso Israele e Hamas, in mezzo altre tragedie. La pace sembra allontanarsi.
Per questo dobbiamo costruirla con più forza di prima. La pace deve essere una scelta del cuore e dell’intelligenza, non è scontata, richiede impegno. Perché la pace non è una parola da gridare nelle piazze, ma un fatto che deriva dalle opere di giustizia. Un mondo di pace è un mondo che accoglie ogni uomo e donna di qualsiasi origine e religione perché tutti hanno diritto a cibo, casa, lavoro, cure, dignità, istruzione. È un mondo in cui giovani e adulti sono pronti a fare della propria onestà la chiave per costruire il bene comune. È il comprendere che il bene che posso fare io non lo può fare nessun altro, perché è la parte di bene che tocca a me, è la mia responsabilità.

Insomma, la pace è per tutti ed è di tutti, ma tutti devono contribuirvi.
Esattamente questo, la pace non si delega e nasce dalla bontà che disarma. Al di là delle differenze ogni uomo e donna può fare un po’ di bene. Un mondo nuovo sarà di chi amerà di più. Vale per tutti: cristiani, ebrei, musulmani, per i credenti di ogni religione e anche per chi non crede.

Dal Sermig che messaggio può arrivare nei luoghi in cui si combatte?
Vorrei che tutti potessimo ascoltare il grido di una anziana donna palestinese tra le macerie della sua casa distrutta dalle bombe. Piangendo davanti alla telecamera di un giornalista ha gridato: basta morte, basta distruzione. Che questa guerra finisca. Pace per noi e anche per Israele. Faccio mie le parole credibili di questa donna che ha avuto il coraggio di dire che il dolore provocato dalla guerra è dolore per tutti, amici e nemici e fa male a tutti. Vorremmo poter alleviare il dolore di tutti, da una parte e dall’altra e ci sentiamo impotenti. Cerchiamo, fin da ora, di metterci a fianco della gente che soffre da una parte e dall’altra della linea di divisione, ripartendo dal silenzio, dalla preghiera, dal digiuno, ed essere così strumenti di umanità buona e accogliente. Anche nella tragedia, nel dolore più atroce, è possibile coltivare una speranza. Con una consapevolezza: può essere flebile, debolissima, appena accennata, ma solo la luce annulla il buio. Ognuno di noi può esserlo, facendosi promotore e strumento di pace.

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