Il “narco-continente”: crocevia di droga, crimini, violenza e morte

Un vero e proprio “narco-continente”. Questo sta diventando, ogni giorno di più, l’America Latina. Niente di nuovo, per alcuni aspetti: i cartelli colombiani e quelli messicani godono di ampia letteratura, e sono oggetto di innumerevoli serie televisive, ispirati a personaggi “mitici”, come Pablo Escobar e il “Chapo” Guzmán. In realtà, il narcotraffico, alimentato in gran parte della cocaina, sempre più richiesta in tutto il mondo (ma anche da altre sostanze, come le meta-anfetamine), è un cancro ormai in metastasi, che diffonde i suoi effetti di morte, violenza, corruzione non solo nei Paesi tradizionali di coltivazione (Perù, Colombia, Bolivia), produzione e commercio (di nuovo Colombia, Messico, sempre più anche il Brasile), ma anche altre zone tradizionalmente meno coinvolte. L’America Latina, così, si è ritagliata il suo “spazio” nella “terza guerra mondiale a pezzi” di cui spesso ha parlato Papa Francesco. E parlare di “guerra” non è certo una forzatura.

(Foto: Siciliani-Gennari/SIR)

Un vero e proprio “narco-continente”. Questo sta diventando, ogni giorno di più, l’America Latina. Niente di nuovo, per alcuni aspetti: i cartelli colombiani e quelli messicani godono di ampia letteratura, e sono oggetto di innumerevoli serie televisive, ispirati a personaggi “mitici”, come Pablo Escobar e il “Chapo” Guzmán. In realtà, il narcotraffico, alimentato in gran parte della cocaina, sempre più richiesta in tutto il mondo (ma anche da altre sostanze, come le meta-anfetamine), è un cancro ormai in metastasi, che diffonde i suoi effetti di morte, violenza, corruzione non solo nei Paesi tradizionali di coltivazione (Perù, Colombia, Bolivia), produzione e commercio (di nuovo Colombia, Messico, sempre più anche il Brasile), ma anche altre zone tradizionalmente meno coinvolte. L’America Latina, così, si è ritagliata il suo “spazio” nella “terza guerra mondiale a pezzi” di cui spesso ha parlato Papa Francesco. E parlare di “guerra” non è certo una forzatura.

Un’altra “pandemia” che corrode il tessuto sociale.  Agustín Salvia, sociologo dell’Università Cattolica dell’Argentina, oltre che coordinatore dell’Osservatorio del Debito sociale dello stesso ateneo e collaboratore del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), ritiene che l’avanzata del narcotraffico abbia tre direzioni: “In primo luogo, c’è l’aspetto finanziario e del commercio globale. Si tratta di un fenomeno che collega l’America Latina agli Stati Uniti e all’Europa, muove grandi interessi e grandi capitali, genera un’economia sommersa, riciclaggio di denaro. Esiste, quindi, un secondo livello, di carattere territoriale. Il narcotraffico si inserisce nelle dinamiche delle economie povere, risponde a esigenze di maggiore guadagno e benessere, recluta manodopera a basso prezzo, con la complicità della politica. Settori popolari che vivono nella marginalità finiscono con il cadere in questa rete. Così, il fenomeno si allarga nei territori, a macchia di leopardo, non come si trattasse di un’invasione militare”. In tal modo, “i gruppi criminali controllano il territorio, pagano campagne elettorali, ma finanziano anche media e squadre di calcio, la loro presenza diventa pervasiva, molto pericolosa per le comunità locali. Infine, c’è un terzo livello, “quello delle vittime della droga, facendo una distinzione tra il contesto ludico e ricreativo delle classi sociali più alte e quello cel consumo di sostanze di bassa qualità e alta mortalità nelle zone popolari, dove il consumo attecchisce tra chi non gode di relazioni e appoggio sociale. Davvero, per tutti e tre questi contesti, è un’altra pandemia, che corrode il tessuto sociale”.

Ondata di violenza in Ecuador. È in questo orizzonte che si inserisce la preoccupante ondata di violenza che coinvolge, come si accennava, Paesi che non erano tradizionalmente coinvolti in ampi fenomeni di narcotraffico. Come l’Ecuador, dove nel 2021 sono state sequestrate oltre 200 tonnellate di cocaina, quasi tre volte tanto rispetto al 2019. Nello stesso periodo, è raddoppiato il numero di morti violente. Nelle ultime settimane, la rivolta della popolazione carceraria, vincolata in gran parte ai gruppi illegali del narcotraffico, ha provocato numerose vittime, portando a circa 400 persone il bilancio dei morti in ambito di rivolte carcerarie degli ultimi due anni.

Aggiunge Jorge More Varela, docente di Scienze politiche e internazionali alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador: “Negli ultimi anni, durante la presidenza Moreno, le carceri sono state abbandonate a se stesse e sono diventate i quartieri generali della droga. L’Ecuador, grazie soprattutto alla vicinanza con la Colombia, si è trasformato in paese di transito della cocaina, qui sono presenti tutti i maggiori gruppi, i cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco, il Clan del Golfo colombiano, i gruppi brasiliani. L’aumento della violenza, soprattutto nelle carceri, è dovuto a una lotta per la leadership del commercio della cocaina. Va detto, però, che il problema in Ecuador persiste da decenni. Ora, però s’ è fatto più visibile”. In ogni caso, a mio avviso “il narcotraffico è un problema globale e come tale va affrontato, e si potrà fare poco finché aumenta la domanda”.

Il caso del Paraguay. Ovunque, il commercio di droga porta con sé una scia di violenza. Accade in Argentina, dove, per esempio, nella città di Rosario, la terza del Paese e incrocio di vie di comunicazione, sono stati registrati dall’inizio dell’anno a ottobre oltre 220 omicidi, con un tasso superiore di oltre tre volte rispetto al resto del Paese. Accade in Cile e specialmente nella periferia di Santiago, dove molti dei quartieri più poveri sono in mano alle bande. In generale, il Cono Sur, la parte meridionale del Sudamerica, è sempre più attraversata da una scia di polvere bianca e, insieme di sangue. In questo scenario, un ruolo chiave è rivestito dal Paraguay, Paese “cerniera” tra Argentina, Brasile, la stessa Bolivia.

Ha fatto scalpore, nel maggio scorso, l’uccisione in Colombia (mentre era in luna di miele) del magistrato Marcelo Daniel Pecci Albertini, procuratore antimafia del Paraguay, specializzato nella lotta alle mafie e al narcotraffico. Negli ultimi mesi, la zona al confine con il Brasile, e soprattutto la città di Pedro Juan Caballero, è diventata uno dei luoghi più pericolosi del continente. Spiega il sociologo Carlos Peris, ricercatore del Consiglio delle Scienze del Paraguay e docente all’Università Cattolica di Asunción: “Storicamente, il Paraguay era il Paese della marijuana, ora sta diventando Paese produttore di cocaina. I prodotti chimici necessari entrano nel Paese senza controlli, la zona del Basso Chaco è diventata la centrale operativa, la coca viene preparata per il mercato argentino. Popolazioni vulnerabili, come quelle indigene sono coinvolte nel narcotraffico. Ad agire sono gruppi transnazionali, dai ‘Los Soles’ venezuelani ai cartelli brasiliani, come il ‘Primeiro Comando’ o il ‘Comando Vermelho’. Il fenomeno diventa sempre più complesso”.

La violenza, in città come Pedro Juan Caballero, è sempre stata presente, “ma ora si uccidono persone che hanno un ruolo diverso: giudici, politici, giornalisti… E questo comincia ad accadere anche in altre città, in un clima di diffusa impunità”. Il docente esprime preoccupazione per la crescita della “narcopolitica”, anche in vista delle elezioni che il prossimo anno si terranno sia in Paraguay che in Argentina.

Il dibattito sulla legalizzazione. Difficile pensare a soluzioni, “sicuramente i sistemi di difesa devono rafforzarsi, così come i servizi di intelligence. Ma decisiva è una maggiore collaborazione tra Paesi”. Sul tappeto, secondo Peris, anche una revisione della politica internazionale, compreso il tema della legalizzazione del commercio delle sostanze. Un’ipotesi che non convince, invece il prof. Salvia: “Il tema, in astratto, può essere posto, ma tale provvedimento legittimerebbe il consumo tra i settori più poveri della popolazione e verrebbe gestito in un contesto di debolezza dei sistemi statali”. Resta, invece, per il sociologo argentino, “l’importanza della denuncia da parte delle comunità cristiane, nonostante i pericoli, e dell’impegno delle comunità locali nelle periferie, oltre allo sforzo enorme, già esistenti, per il recupero delle persone in situazione di dipendenza”.

  • giornalista de “La vita del popolo”

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