Il giallo “Vita privata” con Jodie Foster e “La mia famiglia a Taipei” vincitore alla Festa di Roma

Avvicinandoci al Natale, aumentano i titoli in sala in cerca di un pubblico più selettivo, che desidera uscire dai consueti binari della commedia all’italiana. In evidenza due proposte che esplorano generi diversi. Anzitutto “Vita privata” di Rebecca Zlotowski con una sempre incisiva Jodie Foster che recita in francese. Un giallo psicologico che oscilla tra investigativo ed enigma dell’anima. In uscita dal 18 dicembre il dramma familiare con lampi di umorismo “La mia famiglia a Taipei”, opera prima di Shih-Ching Tsou, vincitore della 20a Festa del Cinema di Roma. Il diario di una famiglia al femminile, tra affanni quotidiani, silenzi e ingombranti segreti.

Avvicinandoci al Natale, aumentano i titoli in sala in cerca di un pubblico più selettivo, che desidera uscire dai consueti binari della commedia all’italiana. In evidenza due proposte che esplorano generi diversi. Anzitutto “Vita privata” di Rebecca Zlotowski con una sempre incisiva Jodie Foster che recita in francese. Un giallo psicologico che oscilla tra investigativo ed enigma dell’anima. In uscita dal 18 dicembre il dramma familiare con lampi di umorismo “La mia famiglia a Taipei”, opera prima di Shih-Ching Tsou, vincitore della 20a Festa del Cinema di Roma. Il diario di una famiglia al femminile, tra affanni quotidiani, silenzi e ingombranti segreti.

 “Vita privata” (Cinema, 11.12.25)

Una bella sorpresa “Vita privata” (“Vie privée”), l’ultimo film della regista-sceneggiatrice francese Rebecca Zlotowski – suoi “Planetarium” (2016) e “I figli degli altri” (2022) –, presentato fuori concorso al 78° Festival di Cannes (2025) e nei cinema dall’11 dicembre con Europictures. Punto d’attrazione nonché perno del racconto è la protagonista, l’attrice hollywoodiana due volte Premio Oscar Jodie Foster, che ha accettato di mettersi in gioco con un set a Parigi e soprattutto in lingua francese. A convincerla il copione, un giallo enigmatico che si muove tra sfumature di poliziesco, giallo dell’anima con dinamiche psicologiche ma anche acuti inserti di umorismo sofisticato tipicamente francese. A corroborare l’impianto del film validi comprimari: Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric e Vincent Lacoste.

La storia. Parigi, oggi. Lilian Steiner è una nota psichiatra. La sua routine viene stravolta quando scopre che una delle sue pazienti, Paula, è morta in circostanze sospette. Lilian non si da pace e inizia a indagare, sospettando in primis del marito della donna, Simon. Ad affiancare Lilian nelle ricerche è il marito Gabriel, con cui i rapporti sono un po’ dispersi… “Mi fu subito chiaro – ha raccontato la regista – che questa psichiatra dovesse sentirsi così oppressa dal senso di colpa per la morte della sua paziente da iniziare a chiedersi se fosse stato davvero un suicidio. (…) Ma su cosa sta indagando veramente? Su sé stessa, una donna borghese un tempo così stabile, ora scossa dal proprio fallimento? Sulla sua paziente, la cui voce un tempo echeggiava nello studio e ora è caduta nel silenzio per sempre? Sulla propria responsabilità? O semplicemente su un crimine – ma quale, e perché? L’intero film diventa la messa in scena e il dipanarsi di quel dubbio”. Rebecca Zlotowski firma un film acuto ed enigmatico, che si muove in maniera sinuosa tra i tornanti della realtà e dell’inconscio della protagonista. Un viaggio che oscilla tra realtà e sogno, tra verità e apparenza. Il film pedina la psichiatra Lilian Steiner, che colta dalla notizia della morte della sua paziente perde il proprio centro e precipita in una vertigine di angoscia e dubbi. Si domanda chi abbia ucciso la donna, ma al contempo si interroga su di sé, sulle proprie responsabilità ma anche su quel che resta della propria vita familiare, con un matrimonio spiaggiato e un rapporto con il figlio appannato. La regia della Zlotowski è abile nel percorrere i vari sentieri in campo, mescolando realtà e sogno, facendo perno sull’interpretazione riuscita e inappuntabile della Foster. Un film fumoso, psicologico, acuto e brillante, cui si perdonano anche lungaggine di troppo e sbavature qua e là. Un racconto-puzzle intrigante per uno spettatore adulto, capace di cogliere e approfondire le varie piste narrative. Complesso, problematico, per dibattiti.

 “La mia famiglia a Taipei” (Cinema, 18.12.25)

Ha vinto il concorso Progressive Cinema alla 20a Festa del Cinema di Roma (2025). È il dramedy familiare “La mia famiglia a Taipei” (“Left-Handed Girl”) della produttrice-regista Shih-Ching Tsou, taiwanese di origini ma naturalizzata statunitense. Il film è la sua opera prima, dopo una serie di progetti condivisi con Sean Baker, noto regista-produttore indipendente che ha trionfato nella stagione 2024-25 con “Anora”, Palma d’oro al Festival di Cannes e quattro Premi Oscar di peso tra cui miglior film e regia. Baker è anche il produttore del film “La mia famiglia a Taipei”, che troviamo nelle sale dal 18 dicembre con I Wonder Pictures.

La storia. Taipei (Taiwan) oggi, I-Jing è una bambina preadolescente che vive con la madre e la sorella maggiore. Le tre ritornano in città dopo un periodo di assenza, pronte a un nuovo inizio, anche se decisamente in salita. In ristrettezze economiche e tallonate dai debiti, riescono ad arrivare a fine mese con il lavoro al mercato notturno della madre e un lavoretto part-time della sorella. La situazione inizia a vacillare quando la piccola I-Jing entra in crisi perché fa tutto con la mano sinistra: dai nonni questa attitudine è vista con sospetto, segno di cattivo presagio. Si attiveranno così una serie di conseguenze tragicomiche che faranno saltare silenzi, bugie e verità a lungo sottaciute… “Mio nonno – ha indicato la regista – una volta mi disse di non usare la mano sinistra perché era la mano del diavolo. Mentre sviluppavamo ‘La mia famiglia a Taipei’, ho iniziato a raccogliere varie storie (…) Sono stata attratta dalla tensione che si crea all’interno delle famiglie tradizionali: come la paura del giudizio o del rifiuto da parte della società possa portare a seppellire segreti per anni. Ecco perché abbiamo inserito questo colpo di scena: la famiglia può sembrare normale in superficie, ma sotto sotto nasconde qualcosa di profondo”. Un film che si muove tra dramma sociale e familiare con lampi di umorismo pungente. “La mia famiglia a Taipei” ci racconta un viaggio verso il riscatto di una famiglia traballante, che fa ritorno a Taipei ed è chiamata ad affrontare non pochi problemi, in primis materiali, tra un lavoro che paga poco, debiti pendenti e una povertà da cui non si fatica a uscire. Dall’altro lato, restano irrisolti del passato, segnati da verità nascoste e silenzi gravosi. Tre donne, una madre e due figlie, che iniziano questo percorso disunite e alla fine si ritrovano solidali, grazie a una rinsaldata tenerezza e al coraggio della verità, quella verità che finalmente le rende libere. Nell’opera sono disseminati temi e problematiche anche sfidanti, come l’interruzione di gravidanza, non sempre gestiti con la giusta prudenza. Nell’insieme, un film di matrice sociale che si muove con abilità in bilico tra dramma e commedia, una storia al femminile tra smarrimento e ritrovata coesione. “La mia famiglia a Taipei” è una buona opera prima che abita il perimetro del cinema indipendente, direzionata a un pubblico adulto. Consigliabile-complesso, problematico, per dibattiti.

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