Un padre in carcere che si iscrive all’università perché il figlio ha appena cominciato il primo anno fuori. Una donna di 65 anni che torna sui libri dopo decenni. Un giovane straniero che studia diritto per capire cosa gli è accaduto e orientarsi in un sistema che ha compreso solo in parte. Sono alcune delle storie che si nascondono dietro i 1.837 studenti reclusi iscritti all’università in Italia nell’anno accademico 2024-2025, secondo il Rapporto Cnupp. Una rete che coinvolge 47 atenei, 120 strutture penitenziarie, oltre 300 tutor e circa 500 docenti impegnati in un lavoro che richiede continuità, coordinamento e attenzione alle fragilità individuali. Giovedì 18 dicembre, al Teatro Palladium di Roma, andrà in scena “Waiting in the dark“, drammaturgia ispirata ad “Assassinio nella cattedrale” di T.S. Eliot, il cui incasso sarà interamente devoluto al Polo universitario penitenziario di Roma Tre. “Non ho mai fatto esperienza di un’alterità assoluta in carcere, ma sempre di una somiglianza assoluta”, afferma don Gabriele Vecchione, cappellano della Sapienza e vicedirettore dell’Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma, tra i promotori dell’iniziativa. Accanto a lui Giancarlo Monina, docente di storia contemporanea a Roma Tre e presidente della Conferenza nazionale dei Poli universitari penitenziari, che ricostruisce la storia di un impegno trentennale: “Si iniziò a entrare nelle carceri con l’università molti decenni fa, e negli ultimi quindici questo percorso si è strutturato sempre di più all’interno dei singoli atenei”.
Dal Rapporto Cnupp 2025
La Conferenza dei Poli penitenziari coordina 47 università presenti in 120 istituti. Il 75% degli atenei dispone di aule o sezioni universitarie interne, mentre il 60% garantisce postazioni informatiche dedicate allo studio offline. L’offerta formativa comprende 473 corsi di laurea, con una crescente disponibilità di materiali digitali utilizzabili senza connessione. Oltre la metà degli atenei svolge gli esami direttamente in carcere tramite commissioni interne. In aumento anche le attività di terza missione – laboratori, progetti culturali, iniziative teatrali – attivate dal 68% delle università e spesso svolte insieme agli studenti liberi. La maggior parte degli istituti prevede inoltre agevolazioni economiche per gli iscritti detenuti.

(Foto SIR)
Tutor e docenti nelle celle: “Più motivazioni qui che in aula”
I tutor attivi nei Poli sono circa 300-350, affiancati da circa 500 docenti che entrano nelle strutture per lezioni introduttive, seminari, esami e orientamento. “Non possiamo replicare i corsi tradizionali con 40 o 48 ore continuative”, osserva Monina: “Organizziamo cicli seminariali, lezioni brevi, piccoli moduli”. L’età degli studenti è superiore a quella universitaria ordinaria: molti hanno più di 40 anni, altri superano i 60 e i 70.
“Nel Lazio gli iscritti sono circa 300 e il Polo di Roma Tre ne coordina un centinaio nelle 12 carceri della regione, con 12 studentesse: il numero più alto in Italia”.
“Le motivazioni sono molte: la gestione del tempo, il desiderio di comprendere la propria vicenda, ma anche il rapporto con i figli”, prosegue Monina: “Molti adulti si iscrivono per ritrovare una legittimazione paterna, per dimostrare ai figli la volontà di riscatto. Paradossalmente, molti reclusi sono i primi laureati delle loro famiglie”. L’accesso è semplice: l’iscrizione richiede soltanto i 16 euro dell’imposta di bollo, mentre la tassa regionale è esentata. Il vero ostacolo è il diploma, spesso conseguito all’interno grazie alla collaborazione tra scuole e aree educative. Don Vecchione insiste sulla dimensione rieducativa: “Lo studio è dignità, lo studio è riscatto. Lo dico da cittadino prima che da prete: non possiamo accettare che la pena sia solo punitiva”. Monina aggiunge un elemento decisivo:
“Trovo più motivazioni dietro le sbarre che in aula. Anche i giovani tutor ne escono con un’idea nuova di cittadinanza. Il carcere fa bene anche all’università, non solo il contrario”.
È un processo a doppio senso, che negli anni ha consolidato l’identità dei Poli e reso visibile l’impatto della presenza accademica nelle strutture penitenziarie.
Un palcoscenico contro la rimozione: “Il mostro è come te”
Lo spettacolo del 18 dicembre diventa un’occasione per riportare al centro un tema che raramente entra nel dibattito pubblico e che spesso resta confinato nella cronaca giudiziaria. “Il carcere è una struttura usata per esorcizzare ciò che la società non vuole vedere”, osserva don Vecchione: “È lo spazio in cui si confina ciò che si desidera rimuovere, una sorta di espulsione dell’inconscio collettivo. ‘Lì dentro ci sono i cattivi, così io resto una brava persona’. Ma non è vero”. Il cappellano richiama anche il ruolo dei media:
“Si parla solo dei delitti, della cronaca nera. Una mostrificazione continua che serve a dire: ‘Quello è un mostro, non è come me’. Invece la realtà penitenziaria dice: ‘No, il cosiddetto mostro è come te. Uguale a te’”.
Monina conferma la radice culturale della resistenza sociale: “Il tema cruciale è la stima sociale: molti non capiscono perché ‘si dà l’università ai detenuti’. Ma chi supera questo muro di penalismo, poi comprende e ci sostiene”. Nel 2024 si sono laureati 55 studenti privati della libertà, segno concreto che il riscatto è possibile.

