L’ex‑Ilva di Taranto, il cuore pulsante dell’industria siderurgica italiana, si trova nuovamente al centro di una drammatica vertenza che intreccia lavoro, salute e futuro industriale. La rottura tra sindacati e Governo ha acceso proteste e mobilitazioni che non si limitano alla Puglia: i principali stabilimenti del Nord, come Genova Cornigliano, sono stati teatro di occupazioni e presidi permanenti, mentre i lavoratori hanno bloccato strade e organizzato cortei per difendere i propri posti di lavoro. La cronaca di questi giorni racconta uno scenario di forte tensione sociale, in cui la difesa del lavoro si accompagna alla paura di un ridimensionamento industriale che potrebbe avere conseguenze drammatiche per l’intero comparto siderurgico nazionale. Al centro della protesta c’è il piano governativo, che propone percorsi di formazione per 1.550 lavoratori in sostituzione dell’estensione della cassa integrazione. Secondo l’esecutivo, questi percorsi mirano a preparare il personale alle nuove tecnologie “green” e alla manutenzione degli impianti; i sindacati, tuttavia, denunciano che si tratta di un espediente che rischia di mascherare un ridimensionamento de facto dello stabilimento, con gravi ripercussioni occupazionali. L’acceso dibattito politico ha visto i sindacati chiedere un intervento diretto della Presidenza del Consiglio, ritenuto necessario per scongiurare una crisi industriale e sociale senza precedenti. Non si tratta solo di un conflitto sul lavoro: a Taranto, la siderurgia convive da decenni con problemi ambientali e sanitari, che rendono il delicato equilibrio tra sviluppo industriale e tutela della salute un tema cruciale e irrinunciabile. La mobilitazione attuale mette in luce il nodo lavoro‑salute: difendere i posti di lavoro senza compromettere la sicurezza dei cittadini resta la sfida principale. Per fare un punto sulla situazione il Sir ha intervistato don Antonio Panico, professore, vicario episcopale della diocesi di Taranto per la Pastorale sociale, il lavoro, la giustizia e la custodia del creato e profondo conoscitore della vicenda dell’ex Ilva.
In queste ore lo sciopero e l’occupazione degli stabilimenti hanno riportato al centro la tensione attorno all’ex-Ilva. Come legge il clima di agitazione fra i lavoratori?
Secondo me è normale che ci sia agitazione. I lavoratori sono molto divisi: alcuni vedono in quello che sta accadendo la “chiamata della chiusura”, altri invece ritengono che la posizione del Governo sia inevitabile, perché non ci sono prospettive diverse e si sta semplicemente cercando di prendere tempo sperando che qualcosa cambi. C’è anche chi pensa che si tratti di un modo per mettere pressione sulla città: la prospettiva che 6.000 persone vadano in cassa integrazione si può evitare solo continuando così, ma è evidente che questo modello produttivo fa male alla salute. Ci ritroveremmo quindi nel vecchio conflitto lavoro-salute già vissuto nel 2012, quando la magistratura arrivò a disporre la chiusura degli impianti. Il problema vero è che siamo fermi: è stato perso troppo tempo e la situazione oggi è difficilissima da gestire. E le responsabilità non possono essere attribuite solo al Governo attuale: le radici risalgono molto indietro.
Il Governo propone percorsi di formazione in alternativa all’estensione della cassa integrazione. Ritiene che questa possa essere una strada valida?
Io non vedo negativamente la possibilità di formarsi per fare qualcosa di diverso. È chiaro che i sindacati temono che questo preluda alla chiusura imminente dello stabilimento. Ma se davvero si deve chiudere, almeno si dà alle persone la possibilità di prepararsi a un’altra attività. Certo, i lavoratori contestano anche il fatto della cassa integrazione.
Sullo sfondo c’è anche il dibattito sulla nave rigassificatrice e sulle conseguenze per la città. Come interpreta questa partita?
Mi sembra che la tensione sia alimentata anche da questa storia della nave rigassificatrice. Il Comune non la vuole, perché metterebbe in difficoltà l’approdo delle navi da crociera, una delle poche prospettive di sopravvivenza turistica per la città. Inoltre, da quello che leggo, non sembra nemmeno necessaria per la produzione di acciaio elettrico. È una situazione molto complessa: la cittadinanza la rifiuta, il Comune pure, e il Governo la considera indispensabile.
Lei in passato ha richiamato più volte la necessità di un dialogo serio tra Governo, sindacati, azienda e comunità. Come si fa a ripartire oggi, con una rottura così profonda?
È complicatissimo. Siamo in un momento di conflitto, non di dialogo. Il problema è enorme: non c’è un investitore che creda davvero nella possibilità di andare avanti con questo stabilimento così com’è. E nello stesso tempo il Paese ha bisogno di acciaio. Non possiamo chiudere, ma non possiamo nemmeno continuare così. E non c’è nessuno che voglia intervenire. Sembra una strada senza uscita.
Se davvero non sarà possibile produrre in modo più sostenibile, come si può accompagnare chi oggi lavora all’ex-Ilva?
Bisognerà aiutare queste persone a uscire dal mondo del lavoro nel modo più dolce possibile. In passato c’era uno strumento importante, come la legge sull’esposizione all’amianto, che permetteva un’uscita anticipata. Bisognerebbe inventare qualcosa di simile, ma significherebbe comunque ammettere che la fabbrica si avvia alla chiusura. Mi dispiace molto per i lavoratori.
Che messaggio si sente di lasciare oggi ai lavoratori e alla città?
Esprimo la mia solidarietà ai lavoratori e la speranza che qualcosa di nuovo possa intervenire per permettere una produzione meno impattante possibile. Il nodo del carbone resta fondamentale: non possiamo andare avanti così. Ma comprendo la paura e la frustrazione di chi vive da anni in questa incertezza.

