Quando parliamo di famiglie multiproblematiche ci riferiamo a nuclei familiari in cui più componenti manifestano contemporaneamente disturbi di tipo psicologico, fisico e sociale, tali da compromettere l’equilibrio del sistema familiare e richiedere l’intervento integrato di diversi servizi socio-assistenziali e socio-sanitari. Non si tratta semplicemente di famiglie che attraversano momenti di difficoltà temporanea, ma di situazioni caratterizzate da un accumulo di problematiche che si intrecciano e si alimentano reciprocamente: tossicodipendenza, alcolismo, malattia mentale, povertà economica, conflittualità intrafamiliare, marginalità sociale, incapacità di gestire il ménage domestico e, spesso, coinvolgimento in attività devianti o illegali. Ciò che rende queste famiglie particolarmente vulnerabili è proprio la compresenza simultanea di più fattori di rischio, che si sovrappongono creando una condizione di fragilità sistemica. Non è la singola problematica a definire la multiproblematicità, ma l’insieme complesso di difficoltà che interagiscono tra loro, rendendo il nucleo familiare incapace di rispondere adeguatamente sia alle richieste esterne della società, sia ai bisogni interni dei propri membri, in particolare dei figli.
Queste famiglie si caratterizzano per rapporti discontinui e fragili con l’ambiente sociale, situazioni relazionali interne bloccate o altamente conflittuali, e una sostanziale incapacità di riconoscere le proprie difficoltà come tali. Frequentemente, queste famiglie non si rivolgono spontaneamente ai servizi, anzi tendono a richiudersi in sé stesse, non presentandosi agli appuntamenti, non rispondendo alle comunicazioni scritte e faticando enormemente a relazionarsi con gli operatori. La complessità delle situazioni multiproblematiche richiede necessariamente un approccio integrato e multidisciplinare. Nessun singolo servizio, per quanto competente, può rispondere da solo all’insieme articolato di bisogni che queste famiglie presentano. Un intervento frammentato, che affronta le problematiche in modo isolato e sequenziale, rischia di essere inefficace e di produrre quella che in letteratura viene definita “ridondanza degli strumenti”, cioè una sovrapposizione di interventi non coordinati che confondono la famiglia, disperdono risorse e non producono un reale cambiamento.
Il rischio principale di un approccio non integrato è quello di etichettare i singoli individui come “problematici” o “devianti” senza considerare il contesto familiare complessivo e le dinamiche sistemiche in cui vivono. Il primo e più importante compito delle famiglie multiproblematiche è quello di riconoscere di avere un problema e accettare l’aiuto. Questo passaggio, apparentemente semplice, è in realtà uno dei nodi più complessi da sciogliere. Molte di queste famiglie, infatti, hanno sviluppato nel tempo meccanismi difensivi che impediscono loro di vedere le difficoltà o di percepirle come modificabili. La negazione del problema, la tendenza a minimizzare o a incolpare fattori esterni sono modalità di protezione psicologica che, però, ostacolano qualsiasi possibilità di cambiamento. Riconoscere la necessità di un aiuto esterno non significa ammettere un fallimento come genitori o come famiglia, ma rappresenta un atto di coraggio e di responsabilità verso sé stessi e, soprattutto, verso i figli. È l’inizio di un processo di consapevolezza che permette di passare da una posizione di vittimismo passivo (“tutto ci capita contro”, “non dipende da noi”) a una postura attiva (“possiamo fare qualcosa per migliorare la nostra situazione”).
Una volta accettato l’aiuto, il secondo passaggio cruciale è la partecipazione attiva alla progettazione degli interventi. Il progetto personalizzato non può essere calato dall’alto dagli operatori, ma deve nascere da un confronto reale con la famiglia, che conosce meglio di chiunque altro le proprie dinamiche interne, le proprie risorse e i propri limiti. I genitori devono sentirsi e essere parte del processo decisionale: devono poter esprimere il proprio punto di vista, raccontare il proprio vissuto, manifestare dubbi e paure. Non si tratta di “trovare l’accordo” a tutti i costi con gli operatori, ma di costruire uno spazio di dialogo in cui le diverse prospettive – quella dei genitori e quella dei professionisti – si confrontano e si integrano. Questo approccio, definito “partenariato con le famiglie”, implica che i genitori mantengano uno spazio di responsabilità nella definizione delle scelte educative, anche quando queste vengono condivise con i servizi. La partecipazione non può limitarsi al momento iniziale di definizione del progetto, ma deve continuare lungo tutto il percorso.
I genitori sono chiamati a prendere parte ai momenti di verifica e di valutazione, a contribuire al monitoraggio degli obiettivi raggiunti o non raggiunti, a proporre modifiche in base ai cambiamenti intercorsi nella vita familiare. La valutazione partecipativa è uno strumento prezioso proprio perché trasforma la famiglia da destinataria a co-valutatore del proprio percorso, aumentando il senso di proprietà e di responsabilità rispetto agli esiti. Uno degli aspetti più importanti del ruolo delle famiglie è quello di scoprire, riconoscere e attivare le proprie risorse interne. Anche nelle situazioni più complesse, ogni famiglia possiede competenze, punti di forza e capacità che possono essere valorizzate e messe a frutto. Il compito degli operatori è quello di aiutare i genitori a individuare queste risorse, ma spetta poi alla famiglia il lavoro di attivarle concretamente nel quotidiano. Le risorse possono essere di diverso tipo: competenze pratiche (saper cucinare, saper gestire il bilancio familiare, avere capacità manuali), capacità relazionali (saper chiedere aiuto, avere una rete di amici o parenti disponibili), caratteristiche personali (resilienza, creatività, senso dell’umorismo, determinazione) o esperienze pregresse positive da cui attingere.
Riconoscere queste risorse significa uscire da una visione deficitaria di sé stessi (“non siamo capaci”, “non ce la facciamo”) per abbracciare una prospettiva più complessa che integra difficoltà e potenzialità. Molte famiglie multiproblematiche tendono a isolarsi, sia per vergogna sia per difficoltà relazionali pregresse. Rompere questo isolamento è un compito che spetta in prima battuta alla famiglia stessa: chiedere aiuto a un parente, accettare il sostegno di un vicino, partecipare a momenti di aggregazione nel quartiere sono passi importanti verso una maggiore inclusione sociale. Infine, ma non meno importante, i genitori hanno il compito di essere essi stessi il cambiamento che vogliono vedere nei propri figli. I bambini apprendono soprattutto attraverso l’osservazione dei comportamenti degli adulti di riferimento. Se i genitori si impegnano concretamente nel percorso di cambiamento, se mostrano ai figli che è possibile affrontare le difficoltà, chiedere aiuto, modificare abitudini dannose, anche i bambini interiorizzano questi modelli e sviluppano maggiore fiducia nella possibilità di migliorare la propria vita. Essere modelli positivi significa anche saper mostrare le proprie fragilità in modo costruttivo, far vedere ai figli che gli adulti possono sbagliare ma anche riparare, che si può attraversare una crisi e uscirne più forti. Questa dimensione di autenticità è essenziale per costruire una relazione genitori-figli basata sulla fiducia e sul rispetto reciproco.

