I senatori delle Commissioni Giustizia e Sanità, in questo periodo di pausa estiva, oltre al dovuto riposo, avranno modo anche di meditare – e ne hanno ben d’onde – sul disegno di legge sul fine vita che prevede anche il suicidio medicalmente assistito, da loro recentemente approvato in attesa però di riprenderlo in mano appunto alla ripresa dei lavori parlamentari. In una materia così delicata e difficile non si sarà mai finito di riflettere, ed in effetti non pochi – da sponde diverse – ritengono il ddl all’esame carente o inadeguato. C’è anche chi lo ritiene del tutto inutile e “pleonastico”, dal momento che la Corte Costituzionale ha dato le sue indicazioni al riguardo, ma il Parlamento non è obbligato a legiferare, poiché sono già vigenti altre due leggi importanti che offrono sufficiente orientamento per decisioni equilibrate, rispettose della dignità e della volontà di ogni malato terminale o comunque in gravissime condizioni, tenuto in vita dalle macchine. Si tende, infatti, a ignorare – come ricorda anche il neo-presidente della Pontificia Accademia per la Vita, il padovano mons. Renzo Pegoraro (ben noto per la sua competenza e saggezza anche nel nostro territorio, dove negli anni trascorsi ha tenuto numerose conferenze) – il valore, nonché la doverosa applicazione, della legge 38 del 2010 sul trattamento del dolore e sulle cure palliative, come pure la legge 219 del 2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Se si affronta la questione al di fuori di pregiudizi ideologici o di tesi preconfezionate, esse danno sufficienti garanzie perché – questa più recente – sia sempre rispettata la volontà del malato attraverso una sincera alleanza medico-paziente che porti ad un cammino concordato verso la conclusione naturale della vita, e perché – la prima – siano assicurate le cure necessarie come la somministrazione degli indispensabili antidolorifici e sedativi, ma anche la vicinanza affettuosa e premurosa affinché il paziente gravissimo o terminale si senta sostenuto fino agli ultimi momenti del suo percorso di vita terrena. Chi pensa che i cristiani siano il “partito del dolore” – una certa mistica, in effetti, lo esaltava in modo troppo enfatico (eppur significativo) come “partecipazione alla croce di Cristo” – in questo ambito è fuori strada. Il cristiano è impegnato a combattere, lenire e superare il dolore e la sofferenza non meno degli altri: e, proprio quanto al “fine vita”, afferma e si adopera da una parte perché sia assolutamente evitato ogni “accanimento terapeutico” e dall’altra perché sia alleviato in ogni forma e con ogni giusto mezzo il dolore. Ma sono il concetto e la pratica del “suicidio assistito” che vanno contro la vita come dono inestimabile. Del resto, si potrebbe dire, quella vita, che ti è stata donata gratuitamente senza di te, non puoi neppure togliertela con le tue stesse mani. Che il “suicidio assistito” sia “illecito” lo ammettono anche la Corte e lo stesso ddl che ne prevede solo e semplicemente la “non punibilità”, non l’effettuazione in quanto tale. Quel che viene sottolineato da alcuni con forza è il diritto di “scegliere” – e a questo riguardo, appunto, va applicata meglio la legge 219. Come si sottolinea il livello di insopportabilità raggiunto (ma, a questo punto, non solo fisica, bensì anche psichica, sociale, ecc., il che porterebbe molto lontano con le conseguenze di una “eutanasia” senza confini; anche il “suicidio assistito”, in fondo, è una “auto-eutanasia”!…) – e a questo riguardo, dunque, si deve ricorrere all’altra legge vigente, quella delle cure palliative, attualmente ancora indisponibili per circa l’80% delle persone che ne avrebbero bisogno. La qual cosa certo costa, e in tutte le dimensioni, di denaro, di tempo, di disponibilità, di organizzazione. Ma questo, a nostro avviso, è il tasto su cui è urgente premere di più. Nessuno vuole o può avere una parola risolutiva o definitiva in materia così ardua. La “difesa” della vita però dovrebbe valere sempre. A meno che – come si intuisce o sospetta – non si avalli la logica dello “scarto”, che offende la dignità di persone ormai “inutili”. O addirittura non si renda quel conclamato “diritto di morire” – come qualcun altro intuisce e ammonisce – un “dovere di morire”, imposto o disperatamente subito.

