Rinascita del mammut lanoso: quale confine tra progresso e arroganza?

In un laboratorio statunitense alcuni topi geneticamente modificati hanno iniziato a sviluppare un’insolita e folta pelliccia. Un progetto genetico tra i più ambiziosi e controversi della scienza contemporanea: il ritorno del mammut lanoso, scomparso migliaia di anni fa. L’obiettivo è far nascere entro il 2027-2028 il primo "mammut 2.0", un animale capace non solo di stupire il mondo scientifico, ma anche di contribuire a rallentare lo scioglimento del permafrost

(Foto Colossal Biosciences)

In un laboratorio statunitense, alcuni topi geneticamente modificati hanno iniziato a sviluppare un’insolita e folta pelliccia. Non si tratta di un semplice esperimento di genetica (pubblicato come “preprint” sulla piattaforma bioRxiv), ma di uno dei primi passi verso uno dei progetti più ambiziosi e controversi della scienza contemporanea: il ritorno del mammut lanoso, scomparso migliaia di anni fa. I geni responsabili del pelo folto, recuperati dal DNA di mammut conservati nel permafrost, sono stati inseriti nel genoma di alcuni roditori, per testarne la funzionalità. È solo una piccola anticipazione di ciò che Colossal Biosciences, la società americana pioniera nella cosiddetta “de-estinzione”, spera di ottenere nei prossimi anni: un vero e proprio ibrido tra elefante asiatico e mammut, capace di sopravvivere nelle distese artiche.

L’obiettivo dichiarato è ambizioso: far nascere entro il 2027-2028 il primo “mammut 2.0”, un animale capace non solo di stupire il mondo scientifico, ma anche di contribuire a rallentare lo scioglimento del permafrost.

Il passo pesante di questi grandi erbivori contribuirebbe, infatti, a compattare la neve, facilitando la penetrazione del freddo nel suolo e favorendo la crescita di praterie artiche, con effetti potenzialmente positivi sul bilancio climatico globale.

Eppure, dietro questa narrazione che intreccia biotecnologia e conservazione, emergono enormi interrogativi etici. E non si tratta solo di benessere animale, benché anche questo aspetto sia tutt’altro che secondario: l’idea di utilizzare elefanti asiatici, specie già in pericolo, come madri surrogate per portare a termine gravidanze sperimentali, solleva serie obiezioni. Il tasso di fallimento di questi esperimenti è altissimo, con aborti, malformazioni e sofferenze fisiche e psicologiche per gli animali coinvolti.

Ma le implicazioni più profonde riguardano proprio noi esseri umani, la nostra relazione con la natura e la nostra visione del progresso scientifico. In primo luogo, c’è il rischio di una pericolosa illusione di onnipotenza. La de-estinzione si inserisce in una visione tecnocratica in cui l’uomo, armato di tecnologie avanzate, si arroga il diritto di riscrivere la storia naturale, manipolando la vita a proprio piacimento. Si tratta di una “hybris tecnologica”, un atto di arroganza in cui la complessità della biosfera viene ridotta a un semplice “problema ingegneristico”, risolvibile con un po’ di editing genetico e investimenti miliardari.

Questa mentalità rischia di ridurre la biodiversità a un catalogo di risorse manipolabili, dove ogni specie diventa potenzialmente un prodotto brevettato, un organismo che può essere ricreato, alterato e persino commercializzato. Il mammut ibrido diventa così un artefatto biotecnologico, non un individuo con un valore intrinseco, ma un simbolo della capacità umana di piegare la vita a fini economici e mediatici. Questa logica potrebbe estendersi, un domani, anche all’uomo stesso, aprendo scenari inquietanti di “bioprogettazione umana”, dove la selezione genetica non serve più solo a prevenire malattie, ma a creare individui su misura.

Un altro aspetto etico riguarda la nostra memoria collettiva. Riportare in vita specie estinte rischia di alterare la nostra percezione storica della “responsabilità ecologica”. Se la tecnologia ci permette di correggere l’estinzione, potrebbe diffondersi l’idea che non sia poi così grave distruggere habitat e portare specie sull’orlo della scomparsa, tanto poi potremo rimediare con la genetica. Questa mentalità rischia di svuotare di significato la conservazione preventiva, sostituendola con una visione tecnofila e consolatoria in cui la scienza aggiusta tutto. Il ritorno del mammut diventa così una sorta di “revisionismo ambientale”, che riscrive la storia della vita come una successione di errori umani sempre riparabili.

Invece di fare i conti con la fragilità del mondo naturale, ci rifugiamo nella fantasia di un mondo dove ogni errore può essere cancellato da un laboratorio.

Ma c’è anche una riflessione più profonda: quella sul nostro rapporto con la morte e il limite. Ogni specie, compresa la nostra, è parte di un ciclo naturale fatto di nascita, adattamento e, talvolta, estinzione. Accettare questa fragilità è parte di una visione del mondo in cui l’uomo non è padrone assoluto della vita, ma un abitante tra gli altri – seppur il più evoluto e capace di responsabilità – del nostro mondo, soggetto alle stesse leggi biologiche. La de-estinzione, al contrario, si fonda sull’idea di un controllo totale, in cui nulla è veramente perduto, perché ogni cosa può essere riprodotta e alterata secondo i nostri desideri.

Infine, c’è la questione del significato stesso della scienza. Progetti come quello di Colossal Biosciences rappresentano in qualche modo una forma di “scienza-spettacolo”, dove l’innovazione diventa show mediatico e la competizione per l’annuncio più clamoroso rischia di svuotare la ricerca scientifica di quella riflessività critica che dovrebbe accompagnare ogni vera rivoluzione tecnologica. La scienza cede il passo al “marketing della meraviglia”, con il rischio di oscurare la necessità di una scienza più silenziosa ma fondamentale, quella che protegge le specie esistenti, studia gli ecosistemi fragili e lavora per prevenire, anziché riparare.

In conclusione, riportare in vita un mammut non è solo un esperimento di genetica avanzata: è uno specchio che riflette la nostra idea di progresso, di natura e di noi stessi. Vogliamo essere “custodi di un mondo fragile”, o “ingegneri di una biosfera sintetica”? Il mammut, con la sua pelliccia riscritta nei laboratori, insomma, ci interroga non solo sul nostro passato, ma sul futuro etico della nostra specie.

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