Il mondo in cui viviamo

I rami d’ulivo che agitiamo in questa domenica, imitando la folla che accoglieva esultante Gesù a Gerusalemme, pronta però a rinnegarlo e a consegnarlo a Pilato qualche giorno dopo, è una sorta di metafora della situazione in cui ci si trova, a vari livelli. Esultanza e tragedia, festa e violenza destinate a convivere e a intrecciarsi nello scorrere della vita personale e della storia umana.

I rami d’ulivo che agitiamo in questa domenica, imitando la folla che accoglieva esultante Gesù a Gerusalemme, pronta però a rinnegarlo e a consegnarlo a Pilato qualche giorno dopo, è una sorta di metafora della situazione in cui ci si trova, a vari livelli. Esultanza e tragedia, festa e violenza destinate a convivere e a intrecciarsi nello scorrere della vita personale e della storia umana. La componente più triste, nella variante negativa, è che siano spesso gli stessi soggetti a provocare o a sperimentare l’una o l’altra reazione in tempi e modi diversi. Le folle che acclamano e che poi, manovrate anche da altri, condannano, nell’evocazione liturgica di questa settimana, costituiscono una parabola che va verso il buio della crocifissione, ma che però si riscatta a sua volta nella festa della risurrezione, offrendo così sorprendentemente una svolta in senso positivo che si prolunga nel tempo, ma che incontra e deve incontrare ancora picchi negativi nei drammi degli uomini e dei popoli, provocati dai capi o dai popoli stessi, nessuno dei quali è pienamente innocente o scevro da sentimenti di compromesso o di rivalsa. Per restare all’ambito ecclesiale, anche la stessa “sinodalità”, massima via per la concordia, si traduce non di rado in pretesto per reciproche accuse di incoerenza, dal momento che tutti, in differenti ambiti e circostanze, si è tentati (o talora costretti) a decidere da soli, pena la paralisi o la inefficacia delle scelte. Tanto più che un’autentica “sinodalità” (camminare insieme, discernere e decidere), priva del puntello o del viatico della “maggioranza” che regola una democrazia, è sempre esposta a rischi, ai quali si vorrebbe (o si dovrebbe) rimediare con la competenza o con l’autorità. Occorrerà dunque confidare sempre e solo nella presenza e nella forza dello Spirito, anche nella costruzione delle nostre “comunità sinodali”, poiché umanamente ogni deriva è possibile. Tornando agli eventi, come dei secoli scorsi così dei tempi attuali, si sarebbe tentati di invocare dall’alto giuste punizioni (e nell’Antico Testamento questa era spesso la prospettiva con cui si guardava alla Storia dei popoli) per quanti si macchiano di gravi reati o, per dirla in termini tecnici moderni, di “crimini contro l’umanità”, gettando nella desolazione e nella disperazione famiglie e popoli per un tornaconto proprio o di parte. Esempi – come tutti sanno – non ne mancano oggi, come non ne sono mancati ieri (difficile dire chi più calzante, chi meno). Eppure, a quanto pare, la storia non funziona così, almeno nello spazio e nel tempo attuali. Si suole dire “chi la fa l’aspetti”, ma se non si tratta di una vendetta diretta – che troppe volte viene servita fredda sia a livello personale sia a livello di nazioni – è difficile che il proverbio s’avveri. Non sarà il Cielo a punire chi stravolge l’esultanza e la festa in pianto e in lutto, se non alla fine della storia quando il Giudizio verrà. Di questo era convinto anche il grande pensatore Immanuel Kant che riteneva una prova dell’esistenza di Dio appunto la necessità di un giudizio finale che retribuisca i buoni e punisca i malvagi (come, del resto, ci ammonisce il capitolo 25 del vangelo di Matteo). Ebbene, cosa fare nel frattempo? Attendere pazientemente; ma anche operare alacremente perché il bene prevalga sul male. Inevitabile, qui, parlare di guerra e di pace. Lavorare, cioè pensare, parlare e agire per la pace è indispensabile, sempre: sia in famiglia, sia nella Chiesa, sia nel Paese, sia tra i popoli. E’ la missione che si è assunta papa Francesco in questi tempi bui. Eppure i cuori, tanti cuori e soprattutto quelli che contano, non si smuovono; tanto che si rischia addirittura di ribaltare i termini, stravolgendo la forza del diritto (che dovrebbe essere una via per la pace) con il diritto della forza (che significa sopruso). A dire il vero una via d’uscita evangelica ci sarebbe ed è quella del perdono, che Gesù dall’alto della croce ci insegna. Ma è un discorso duro, che non tutti possono comprendere e che da scelta personale difficilmente può diventare scelta di un popolo. Nell’impasse, ancora una volta, non resta che pregare. In particolare in questa Pasqua perché si realizzi il miracolo, se non nella Pasqua cattolica (31 marzo), in quella ortodossa, per la quale c’è ancora margine (5 maggio).

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