Femminicidio. Esposito: “Non sottovalutare mai i campanelli di allarme. È inutile fare le crocerossine”

Morire a ventotto anni per mano dell’uomo che aveva tanto amato e con il quale aveva avuto due figli. Lo stesso uomo che aveva prima conquistato la sua fiducia mostrandosi gentile e poi aveva manifestato il suo vero volto, quello di un violento. La mamma di Stefania Formicola racconta al Sir la sua storia

(Foto: ANSA/SIR)

Il 19 ottobre 2016 uno “tsunami” travolge la vita di Adriana Esposito, quasi sessantenne, una tragedia che colpisce tutta la famiglia: la figlia minore Stefania Formicola viene uccisa, a 28 anni compiuti da due settimane, dal marito, a Sant’Antimo. I due figli piccoli sono affidati alla nonna, che diventa di nuovo “mamma” a tempo pieno, insieme con il marito Luigi, che dedicano amore ai nipotini come avrebbe voluto fare Stefania, sparata con un colpo di pistola al cuore. Ora i bambini, dopo una causa, portano il cognome della mamma. Adriana ci racconta la sua storia.

(Foto: Adriana Esposito)

“Stefania ha conosciuto il suo carnefice tramite Facebook. Lui si è presentato come una persona molto gentile e disponibile, raccontandole molte bugie sul proprio conto: le ha detto che era diplomato geometra, faceva l’imprenditore e stava molto bene economicamente. Con la gentilezza è riuscito a carpire la fiducia di mia figlia, che in quel periodo era più fragile perché era da poco finita la sua prima storia d’amore”, spiega la mamma. Così Stefania ha accettato di incontrarlo e hanno iniziato a frequentarsi. “All’apparenza lui era molto premuroso e nulla faceva presagire che covasse dentro di sé tanta violenza. Il primo campanello d’allarme è stato la gelosia, le controllava il telefono, scherzosamente le chiedeva di non mettere la gonna o una maglia più scollata. Inizialmente Stefania non ha dato peso a queste cose, pensando che fosse un suo modo di dimostrare che ci tenesse a lei”. Eppure, osserva Adriana, “Stefania era una ragazza moderna, con tanti sogni nel cassetto, le sarebbe piaciuto fare la carriera militare, noi la sostenevamo, ma quell’uomo glielo ha impedito”. Esposito evidenzia: “Il carnefice vedeva in me e nella sorella le sue rivali perché noi avevamo capito che era un ‘fidanzato padrone’: avevo avuto infatti un ‘padre padrone’ e i campanelli di allarme li sapevo riconoscere. Mettevo in guardia mia figlia, ma non mi voleva ascoltare, pensava che vedessi il male dappertutto e mi diceva che con quel ragazzo stava bene. Poi è arrivata la prima gravidanza, intanto iniziavano i litigi, le privazioni, i soprusi. Lui è riuscito a farla allontanare da tutte le amiche, non voleva che uscisse neppure con la sorella, che parlasse con me, tutto questo perché pensava che io, il padre, la sorella, le amiche fossimo tutti suoi nemici”. Effettivamente, aggiunge, “avevamo capito chi era, dicevamo a Stefania che quel ragazzo non era adatto a lei, era un rapporto malato e lo doveva lasciare, anche se era in attesa, ma ci saremmo presi cura di lei e del bambino”.

Sono iniziate anche le violenze fisiche: “Mia figlia aveva occhi di un azzurro bellissimo e non amava truccarsi, ma quando veniva a trovarci vedevamo che aveva un trucco pensante; io le chiedevo come mai si era truccata così e mi rispondeva che quel giorno le andava, ma non era vero, era semplicemente per coprire qualche livido. Malgrado questa situazione, si sono sposati. Dopo un periodo in cui sono vissuti con noi, hanno preso casa lontano da noi, per volontà di lui che non ci voleva vicini. Noi aiutavamo mia figlia economicamente per lei e il bambino, perché il marito non era geometra né imprenditore, né aveva voglia di lavorare. Non portava mai soldi a casa, quando lo faceva, in realtà erano soldi prestati.

Malgrado le botte e le violenze, continuava a vivere con il marito perché lo amava ed era convinta che lui sarebbe cambiato: pensava di fare la crocerossina e si illudeva di curarlo con amore e rispetto”.

Quando è nato il secondo figlio, “Stefania ha voluto prendere casa vicino a noi, nel nostro condominio, per non stare da sola. Infatti, anche se non lavorava lui stava tutta la giornata fuori. Ma con questa scelta di Stefania è successa la guerra: lui cercava di mascherarsi, essendo noi vicini, ma ugualmente sentivamo le urla durante le liti, i pianti di mia figlia, ma quando correvamo Stefania ci tranquillizzava che non era successo niente. A un certo punto mia figlia, per non chiedere soldi a noi per qualsiasi esigenza, ha deciso di iniziare a lavorare come assistente in una clinica per anziani. Questa indipendenza ha fatto impazzire lui narcisista patologico e prepotente che da un lato non voleva che Stefania andasse a lavorare, ma dall’altro non portava i soldi a casa per una vita dignitosa. Il marito temeva molto che Stefania, uscendo e parlando con le persone, potesse aprire gli occhi su di lui”.

Con il passare del tempo, davvero Stefania ad un certo punto non ha retto più. “Dopo una lite, chiamò me e mio marito chiedendoci di andare a casa sua: la trovammo in lacrime, la casa sottosopra, lui con il martello in mano che stava rompendo tutti i mobili. Stefania ci chiese aiuto dicendoci che voleva lasciare il suo carnefice. Subito abbiamo portato lei e i bambini a casa nostra. Dopo averci chiesto aiuto è andata dai carabinieri per denunciare le violenze subite e da un avvocato per iniziare le pratiche della separazione. Lui è impazzito di rabbia e in quindici giorni ha elaborato il suo piano omicida”. Quando l’avvocato lo ha chiamato per dirgli che avrebbe dovuto firmare delle carte per la separazione, “il marito chiamò Stefania chiedendole scusa e dicendole che voleva riappacificarsi, chiamò anche me e mio marito per chiederci scusa, in ginocchio, dicendo di voler cambiare. Ma Stefania stavolta non gli ha creduto. La sera del 18 ottobre contattò mia figlia su WhatsApp dicendole che voleva parlarle prima di andare dall’avvocato, mia figlia non gli rispose, ma la mattina del 19 ottobre il marito si fece trovare sotto il portone di casa e quando Stefania entrò in auto prepotentemente salì anche lui chiedendole di accompagnarlo a Sant’Antimo. Durante il litigio l’uccise”.

Adriana chiarisce: “I bambini non hanno visto niente, perché l’omicidio è successo lontano da casa, ma il mio nipotino più grande, che allora aveva 4 anni, ha vissuto le violenze che il padre praticava sulla mamma, il piccolo quando Stefania è morta aveva diciannove mesi e non ricorda quel periodo. I bambini subito sono stati dati a noi nonni, dopo sei mesi c’è stata pure l’udienza davanti al giudice del Tribunale per i minorenni che ci affidò i bambini prima come nonni affidatari e poi come tutori, mentre tolse la patria potestà al padre. Abbiamo fatto anche una causa e abbiamo tolto il cognome del padre ai bambini che ora portano quello della mamma. Ho chiesto all’inizio un supporto psicologico quando Mario iniziò a farmi delle domande sulla mamma e chiesi un incontro con lo psicologo il quale mi disse di dirgli le cose come stavano. Ora non hanno bisogno di un supporto psicologico: erano e sono bambini tranquilli, non hanno mostrato segni di squilibrio per la tragedia della mamma. Certo, fanno domande e, quando posso, rispondo, domande più scabrose cerco di dribblarle. Ma ora ho chiesto io un supporto psicologico perché voglio essere aiutata con i miei nipoti”. Intanto, il marito di Stefania è stato condannato all’ergastolo.

(Foto: ANSA/SIR)

Adriana dopo l’omicidio della figlia insieme con il marito va nelle scuole a raccontare la storia della figlia e a sensibilizzare i ragazzi su come combattere la violenza contro le donne. “Purtroppo i femminicidi stanno aumentando. Quando vado nelle scuole spiego ai ragazzi che un rapporto amoroso può finire per tanti motivi e non bisogna farne una tragedia né usare violenza sfogando la rabbia. Mia figlia dopo tanti anni aveva avuto il coraggio di dire basta. Ci sono anche pene certe per questi misfatti, ma è troppo tardi, quando già è avvenuto l’omicidio. Dobbiamo sicuramente aiutare le donne a capire quali sono i campanelli di allarme, a denunciare, a invitarle a non andare all’ultimo appuntamento che si si risolse spesso in tragedia. Alcune donne hanno paura che denunciando le violenze possano perdere i figli. Bisogna far capire invece l’importanza di denunciare proprio per salvare loro stesse e i bimbi. Lo Stato dovrebbe aiutare le donne a trovare un lavoro quando denunciano uomini violenti in modo tale da potersi mantenere ed essere indipendenti, perché un freno può essere anche la motivazione economica. Senza un’indipendenza pensano che sia meglio sopportare uno schiaffo ma avere un tetto e un piatto caldo per i figli”. Oggi, conclude Esposito, “ci sono leggi contro la violenza, sussidi per gli orfani di femminicidio e per i parenti affidatari. Ma è sempre poco quello che si fa rispetto a questi drammi”.

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