Carceri. Don Grimaldi: “Impegniamoci tutti per rendere le nostre carceri luoghi di speranza, rinascita e riscatto”

Ormai siamo in autunno inoltrato, ma, anche se è passato il periodo estivo, considerato da sempre come uno dei momenti più difficili per i detenuti, restano i problemi “ormai incancreniti” che affliggono i nostri penitenziari. Ne parliamo con l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane

(Foto: ANSA/SIR)

Carceri sovraffollate, episodi di violenza, mancanza di futuro e suicidi, malattie psichiatriche, accuse di tortura… Il mondo carcerario soffre ormai da anni di tutti questi problemi. C’è chi si spende tantissimo per rendere più dignitosa la vita dei ristretti come i cappellani ed è proprio con l’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi, che facciamo il punto della situazione, non dimenticando quanto alla Papa e alla Chiesa italiana sia a cuore questo mondo.

(Foto: don Raffaele Grimaldi)

Come va negli istituti, don Raffaele?

In carcere le emergenze non cambiano tanto dall’estate all’autunno e all’inverno, anche se d’estate si aggiungono il caldo e lo stop di molte attività. I problemi che abbiamo nei nostri istituti sono un po’ incancreniti: sovraffollamento, mancanza di risorse e di personale, spazi inadeguati per la riabilitazione “seria” dei ristretti, soprattutto il problema dell’emergenza psichiatrica nei nostri istituti. Sappiamo bene che attraverso la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) molti detenuti sono rientrati nelle carceri perché le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) erano poche. Molti istituti vivono questo grande disagio perché il peso della gestione di persone con queste problematiche viene affidata alle strutture penitenziarie che sono anche impreparate a gestire detenuti psichiatrici. Spesso quando leggiamo di aggressioni in carcere avvengono tra personale e questo tipo di detenuti. È vero che il Governo ha stabilito che i detenuti violenti vengano spostati in altri istituti o in altre regioni, ma se i problemi nascono da persone con problemi psichiatrici lo spostamento non risolve il problema. Lo spostamento ha un maggior impatto su chi compie un atto violento ma non ha problemi psichiatrici, chiaramente. Al di là dei reati che hanno commesso i detenuti, dobbiamo ricordare sempre che sono persone da rispettare nella loro dignità.

Ogni tanto emergono anche notizie di agenti di Polizia penitenziaria indagati per presunte torture…

Sì, può succedere, però, voglio spendere una parola di vicinanza agli agenti della Polizia penitenziaria, che si devono barcamenare negli istituti tra tante problematiche, ci sono turnazioni che non aiutano le persone a svolgere con serenità il proprio lavoro, quando, poi, qualche collega viene meno a causa di qualche giorno di malattia ricade sugli altri la responsabilità e il lavoro aumenta. Allo stress del lavoro si aggiunge il fatto che nei nostri istituti l’utenza è molto cambiata tra senza fissa dimora, malati psichiatrici, immigrati, persone che non conoscono l’italiano e non comprendono le regole. Tutto questo influisce sullo scatenarsi di violenze. I problemi ci sono e non bisogna trascurarli, se si trascurano, s’incancreniscono e diventano situazioni difficili da risolvere.

Dopo il suicidio di un ventottenne nella casa circondariale di Caltanissetta, che sarebbe uscito solo tra sei mesi, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) ha ricordato che sono 54 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023, con una una media di un suicidio quasi ogni 5 giorni…

Quando parliamo di suicidi in carcere, c’è il rischio di abituarci a queste notizie. È giusto, perciò, il richiamo del Garante. Le persone, che compiono questo gesto estremo con cui mettono fine tragicamente alla loro vita, sono molto fragili, non dovrebbero stare in carcere, avrebbero bisogno di un altro tipo di strutture, dove potrebbero essere seguite in modo diverso, con professionalità specifiche. Oggi si parla tanto di guerra, dall’invasione russa dell’Ucraina al conflitto tra lo Stato di Israele e Hamas, di morti innocenti, di violenze. E, purtroppo, nei nostri istituti penitenziari, tante volte nel cuore di questi detenuti che decidono di suicidarsi c’è un combattimento interiore.

Se non hanno persone che li accompagnano, questa “guerra” rischia di finire con il suicidio.

Questi drammi, proprio come nel caso di Caltanissetta, spesso si consumano alla vigilia o a pochi mesi dall’uscita dal carcere. Stranieri, senza fissa dimora, detenuti abbandonati dai familiari possono avere paura di uscire dal carcere perché sono senza prospettive e senza punti di riferimento, per non affrontare nuovi rifiuti e nuove difficoltà. Gli operatori che lavorano in carcere fanno il loro dovere, quello che è possibile, ma non è facile rapportarsi a detenuti che vivono situazioni di fragilità. Non dimentichiamo, poi, la scarsità di personale, soprattutto specializzato.

Da parte della società civile si sta facendo qualche passo avanti nell’apertura verso questo mondo?

Se non c’è un cambiamento a livello culturale, se non c’è un’attenzione a questa umanità fragile, non cambierà mai niente. Il carcere è il luogo dove viene repressa la libertà e, allo stesso tempo, un luogo che serve per garantire la sicurezza fuori. Se la società non ha una cultura dell’accoglienza e un’attenzione alle fasce deboli, se non è capace della cultura del perdono, è più facile che prevalgano sentimenti di condanna e di emarginazione. Il carcere da molti è visto come il luogo della repressione, ma come ci dice Papa Francesco non possiamo negare all’altro il diritto di rialzarsi. La società deve investire anche in fiducia. Non possiamo stare sempre a puntare il dito. Una persona che non si sente amata e accolta rischia di più di commettere altri reati, una volta fuori.

Ottobre è stato il mese della giustizia riparativa…

Sì, per tutto il mese ogni Istituto penale minorile ha organizzato una sua giornata dedicata alla giustizia riparativa, con incontri in presenza o anche on line, ai quali si sono potuti collegare anche esperti e scuole.

La Chiesa come traduce concretamente l’attenzione costante di Papa Francesco verso il mondo carcerario?

I cappellani, gli operatori pastorali, le consacrate, i diaconi, i volontari costituiscono un esercito di persone che entrano nel carcere come battezzati a nome dei vescovi e della Chiesa, ma sono molto presenti anche fuori investendo nell’accoglienza e in luoghi di recupero degli ex detenuti. La Chiesa quindi vive un’attenzione particolare verso queste fasce così emarginate di popolazione. Certo, non ci possiamo sostituire allo Stato, anche se possiamo affrontare le emergenze e dare vicinanza.

Vuole lanciare un appello?

Impegniamoci tutti attivamente affinché le nostre carceri diventino dei luoghi di speranza, di rinascita e di riscatto.

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