Pnrr e Mezzogiorno. Petraglia (Svimez): “Da solo non basterà a colmare i divari, accompagnarlo con politiche generali a guida centrale”

“Non bisogna illudersi che il Piano nazionale di ripresa e resilienza sia la panacea per il Sud e per il Paese”, afferma il docente di Economia politica all’Università della Basilicata. Ma – aggiunge – “se l’Italia perdesse l’occasione del Pnrr si provocherebbe da sola un problema, condizionando le prospettive di crescita, e ne potrebbe creare uno a livello europeo nell’evoluzione in chiave solidaristica dell’Ue”. Il Piano – avverte – “da solo, non sarà in grado di correggere gli squilibri tra Nord e Sud. Anzi, il rischio enorme è che si amplino ulteriormente”. Per questo, occhio alle “proposte di autonomia differenziata che comporterebbero una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche”

(Foto: ANSA/SIR)

“La crescita del Paese è un obiettivo che non può essere scisso dall’urgenza di riavvicinare il Sud al Nord. La coesione è uno dei pilastri fondamentali del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non dobbiamo ripetere l’errore commesso con i Fondi strutturali, lasciati soli a combattere i gap mentre la politica ordinaria contribuiva ad ampliarli”. Ne è convinto Carmelo Petraglia, professore associato di Economia politica all’Università della Basilicata e consigliere scientifico della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) nonché autore con Stefano Prezioso del volume “Nord e Sud. Divari economici e politiche pubbliche dall’euro alla pandemia”, parlando con il Sir del Pnrr, soprattutto con riferimento all’impatto che dovrebbe avere sul Sud d’Italia e ai rischi che potrebbero concretizzarsi di una mancata diminuzione dei divari con il Nord del Paese.

Professore, il Piano è stato scritto con l’obiettivo che investimenti, riforme e progetti previsti consentissero di ridurre i divari territoriali, generazionali e di genere presenti nel Paese. Stiamo procedendo in questa direzione?
Coesione e inclusione sono elementi costitutivi del Next Generation Eu non solo per equità, ma perché la riduzione delle disuguaglianze tra persone, imprese e territori sostiene la crescita. Il mandato europeo nel finanziare i Piani nazionali di ripresa e resilienza dei Paesi che hanno avuto accesso alle risorse è quello di utilizzare i fondi per favorire la crescita riducendo i divari. Questo si è tradotto nel caso italiano nel vincolo di spesa del 40% per il Mezzogiorno che, per noi di Svimez, è stata un po’ una scelta “contabile” di ripiego. Ci sono diversi segnali che

il Pnrr, da solo, non sarà in grado di correggere gli squilibri tra Nord e Sud,

per limiti originari di impostazione e problemi di attuazione emersi in corsa.

Quali divari vanno colmati tra Nord e Sud Italia?
Due sono le divergenze che vanno chiuse. La prima riguarda il sistema produttivo. Dopo la grande crisi del 2008, l’industria di alcune Regioni del Nord ha saputo adattarsi ai grandi cambiamenti globali, spingendo su tecnologia e innovazione, anche se è ancora in ritardo rispetto alle aree europee più dinamiche. La base industriale meridionale si è invece impoverita, le sacche di precarietà del lavoro si sono ingrossate; il processo di terziarizzazione è avanzato solo grazie all’espansione di settori a bassa produttività e bassi salari.

Per avvicinare il Sud al Nord serve ampliare e ammodernare la base produttiva meridionale.

La seconda divergenza riguarda il peggioramento al Sud delle condizioni di accesso ai diritti di cittadinanza (sanità, istruzione, mobilità). Meno occasioni di lavoro di qualità e meno servizi sono le due principali cause della fuga di oltre 800.000 giovani dal Sud in un ventennio, dei quali quasi 300.000 laureati.

Come si è deciso di agire?
In termini di politica industriale il Pnrr ha fatto una scelta di continuità, rafforzando misure già esistenti (Piano Transizione 4.0) con crediti d’imposta per finanziare investimenti di ammodernamento tecnologico e digitale. Ma ad assorbire queste risorse sono in prevalenza le imprese del Nord. Le stime parlano di un assorbimento intorno al 20% nel Sud.

Il Pnrr avrebbe potuto fare di più, rafforzando il finanziamento di strumenti per l’attrazione di nuovi investimenti al Sud.

E per quanto riguarda i diritti di cittadinanza?

Nel caso dell’istruzione, la Svimez ha mostrato che la quota Sud del 40% non basta a migliorare i servizi e le infrastrutture nei territori dove mancano gli asili nido, le scuole sono meno sicure e i tassi di abbandono scolastico più elevati.

Si è scelto di non partire da una mappatura dei gap da colmare. Non ci siamo vincolati con l’Europa a raggiungere target territoriali; ad esempio, per gli asili nido è stato fissato solo il target nazionale del 33%. Nel ripartire territorialmente le risorse il ministero dell’Istruzione ha tenuto solo parzialmente conto dei fabbisogni. Il riparto, per di più, è avvenuto su base regionale perdendo di vista l’eterogeneità interna alle singole Regioni.

Sono emersi altri problemi in questo ambito?
Ripartite le risorse, è partito il meccanismo dei bandi competitivi. Hanno partecipato quei Comuni che disponevano di personale numericamente sufficiente e qualificato.

Una criticità negli Enti locali del Sud è la mancanza strutturale di risorse umane che rallenta anche la spesa dei Fondi strutturali.

C’è poi un’altra criticità che ha pesato:

i Comuni hanno enormi problemi finanziari.

E, per esempio, costruire una scuola vuol dire andare incontro a costi di gestione futuri; l’insicurezza di avere in futuro risorse adeguate a gestire nuove infrastrutture ha frenato la partecipazione a bandi. Si è poi registrata una sensibilità minore al tema da parte di alcune Amministrazioni locali, che non hanno ritenuto questo ambito come prioritario.

Che conseguenze ha tutto questo?
Il combinato disposto tra criticità nella fase iniziale del riparto delle risorse e criticità del sistema dei bandi ha dato per esito che

i Comuni di Sicilia, Campania e Puglia, le tre Regioni meridionali più popolose, hanno avuto accesso a risorse pro capite per le infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana.

Molti Enti con maggiori gap da colmare hanno avuto risorse insufficienti o comunque minori rispetto a quelle destinate ad altri con migliori indicatori di dotazione infrastrutturale. Questo ci fa dire che

il Pnrr da solo non basterà a colmare i divari. Anzi, il rischio enorme è che si amplino ulteriormente.

Un rischio che, come Svimez, già da tempo avete evidenziato. Secondo lei, il principale ostacolo alla realizzazione del Pnrr nel Mezzogiorno è rappresentato da limiti e ritardi che proprio il Piano voleva ridurre?
Adottando la logica delle quote di spesa, il Pnrr ha ereditato il limite storico della politica nazionale di perequazione infrastrutturale: la mancanza di una ricognizione ex ante dei fabbisogni di investimento sulla quale basare un’allocazione territoriale delle risorse coerente con l’obiettivo di ridurre i divari. Il Pnrr si è poi scontrato con i limiti strutturali della nostra macchina amministrativa. Fatta la scelta di affidare agli Enti territoriali la responsabilità di realizzare gli investimenti, avremmo dovuto anche rafforzarli e accompagnarli. Il nodo ancora non sciolto è quello della rigenerazione della Pubblica Amministrazione, a livello locale e centrale. Ma mi lasci chiarire un aspetto.

Quale?
Dire che il Pnrr non basta, dal nostro punto di vista, significa richiamare l’attenzione sulle politiche generali. Perché

il Pnrr va accompagnato, abbiamo altre risorse. Serve complementarietà, per questo abbiamo proposto di ragionare su tutte le programmazioni – politica ordinaria, Fondi strutturali, le risorse nazionali per investimenti del Fondo Sviluppo e coesione – fino a creare un coordinamento effettivo.

Ci sono ancora oltre 50 miliardi non spesi dalle passate programmazioni del Fondo Sviluppo e coesione ai quali si aggiungono i 40 miliardi del nuovo ciclo 2021-2027. Non “lasciare solo” il Pnrr vuol dire usare queste risorse per coprire i “buchi” che lascerà.

Ha fatto accenno alle difficoltà di spesa avute dal nostro Paese con fondi comunitari. Con il Pnrr, l’Italia non è stata forse troppo ambiziosa rispetto all’ammontare di risorse a fondo perduto e prestiti (circa 192 miliardi di euro totali)?
È stata compiuta una scelta rischiosa, perché tante risorse – lo dice anche la Corte dei Conti – comportano problemi attuativi enormi se non c’è una macchina amministrativa capace di portare avanti gli interventi. Una scelta rischiosa ma necessaria dopo anni di riduzione di investimenti pubblici significativi in sanità, istruzione, mobilità. Era un trend che andava invertito.

Che rischi corre il sistema Paese se al posto di ridurre i divari tra territori la messa a terra del Piano finisse per ampliarli?
Ci sarebbero ricadute interne e altre che coinvolgono il contesto europeo. L’Italia, non va dimenticato, è per sua scelta tra i principali beneficiari del Next Generation Eu avendo deciso di ricorrere integralmente ai prestiti. Ma c’è l’automatismo dei criteri di solidarietà verso i Paesi strutturalmente più deboli dietro i 70 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto ricevuti. Senza il ritardo del Sud avremmo avuto molto meno.

Il nostro Paese, se perdesse l’occasione del Pnrr, si provocherebbe da solo un problema, condizionando le prospettive di crescita, e ne potrebbe creare uno a livello europeo nell’evoluzione in chiave solidaristica dell’Ue.

Non dimentichiamo che sono state molte le resistenze ad approvare Next Generation Eu con il debito comune. Siamo ancora sorvegliati speciali e, se fallissimo, i Paesi “frugali” avrebbero un buon argomento per ribadire la natura eccezionale, non ripetibile, dello strumento, un’esperienza assolutamente da non replicare. Inoltre, siamo in fase di revisione del Patto di stabilità e crescita, e la credibilità del nostro Paese conta molto per riuscire a portare al tavolo proposte di bilancio Ue espansivo per scongiurare un ritorno, come auspicano i “frugali”, all’austerità.

Torniamo agli aspetti interni. Se il Sud dovesse non essere in grado di spendere i fondi, è giusto che questi vadano al Nord?
L’argomento portato come giustificazione di questa richiesta è che il Nord è più veloce a spendere le risorse dei programmi di spesa della politica di coesione (i Fondi strutturali), ma per quelle risorse la spesa da certificare è un “fine” in sé. Questo argomento non vale per il Pnrr che è un Piano “performed based”, cioè basato sulla rendicontazione dei risultati. Nel Pnrr la spesa non è un fine, ma un mezzo per realizzare gli investimenti nei territori a maggior fabbisogno.

Dirottare le risorse verso Nord vorrebbe dire rinunciare alla finalità di coesione del Pnrr.

Tra l’altro, la fase di allocazione delle risorse è stata di fatto completata, quindi l’ipotesi sarebbe tecnicamente impraticabile.

Come fare affinché il Pnrr non rimanga per il Mezzogiorno un libro dei sogni?
Siamo già entrati nel pieno del biennio 2023-25 di massimo sforzo per attuare gli interventi. A trovarsi più in difficoltà saranno i Comuni meno attrezzati di risorse umane e finanziarie; è necessario rafforzarli in termini di organici e accompagnarli con una forte azione dal centro mobilitando centri di competenza e task force nazionali. E

non bisogna illudersi che il Pnrr sia la panacea per il Sud e per il Paese.

Quello che succede nel frattempo alle politiche ordinarie è ancora più importante. Penso alle proposte di autonomia differenziata che comporterebbero una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche.

Per ridurre i divari c’è bisogno di forti politiche generali, che hanno bisogno di una guida centrale, di una regia complessiva nazionale. L’autonomia differenziata va in direzione opposta.

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