Carceri. Don Grimaldi: “Un mondo che sta a cuore alla Chiesa. La società civile non si giri dall’altra parte”

Per un cammino di riscatto, dice al Sir l’ispettore generale dei cappellani, è importante un reinserimento lavorativo degli ex detenuti e una particolare attenzione ai più fragili

(Foto: ANSA/SIR)

Sollecitati dal magistero di Papa Francesco e dalle istanze del Cammino sinodale, i vescovi italiani hanno esortato a promuovere e a sensibilizzare l’attenzione verso il mondo delle carceri. Viene dunque condiviso un segno della Chiesa in Italia per quanti sono stati privati della loro libertà personale e di incoraggiamento per tutti coloro che operano nelle carceri. Si tratta di un’occasione da vivere a livello locale per sensibilizzare le comunità cristiane e la società civile verso questi luoghi di periferia, molto spesso emarginati e dimenticati, contribuendo alla promozione di una nuova cultura della giustizia. Di questa attenzione verso il mondo carcerario ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane.

(Foto: don Raffaele Grimaldi)

Don Raffaele, cosa si farà concretamente?

Per rispondere a questa attenzione dei vescovi italiani, l’Ispettorato dei cappellani nelle carceri italiane sta preparando, in sinergia con l’Ufficio liturgico nazionale, un sussidio da mandare nelle diocesi e nelle carceri per sensibilizzare verso questo mondo. In questa prima fase ogni Chiesa locale sceglierà una giornata in cui promuovere la sensibilizzazione verso il mondo carcerario. Il sussidio aiuterà le diocesi a vivere questa giornata a livello locale. In realtà, in tutte le diocesi c’è già una sensibilità verso le carceri. Infatti, i nostri vescovi sono molto attenti alle dinamiche e alle problematiche nelle carceri. Ora è molto importante che i pastori, unitamente ai cappellani, ai volontari e agli operatori nelle carceri, amplifichino attraverso la loro azione questo messaggio e facciano comprendere i drammi che si vivono all’interno dei nostri istituti. È molto bello che su invito della Conferenza episcopale italiana tutta la Chiesa prenda a cuore la sofferenza che si vive nei diversi istituti penitenziari, cercando di mobilitare le coscienze, di aiutare le comunità cristiane a prendere a cuore la situazione delle carceri. Questa provocazione da parte della Conferenza episcopale italiana è rivolta soprattutto alla società civile perché non soltanto la Chiesa è chiamata a prendere a cuore la situazione delle carceri, ma ancor di più la società civile deve prendere coscienza che è un modo isolato e abbandonato che ha bisogno di essere ascoltato.

Il 2022 è stato un anno record, negativamente, per l’alto numero di suicidi in carcere…

La questione carcere non si può risolvere con la bacchetta magica, da un momento all’altro. Sono situazioni delicate, difficili da affrontare, ma si può fare, con il buon senso di tutti, con la disponibilità del Governo – e rispetto a questo ci fa ben sperare che il ministro della Giustizia Carlo Nordio abbia messo in primo piano la necessità di un’attenzione al mondo carcerario -. Speriamo che il 2023 sia segnato meno dal dramma dei suicidi tra le mura delle carceri, anche se purtroppo, dall’inizio dell’anno, già ci sono stati dei casi di suicidio.

Quali passi auspica per migliorare la situazione attuale?

Occorre prendere a cuore la realtà delle carceri e soprattutto proporre dei cammini. Il carcere non deve essere l’ultima spiaggia per coloro che hanno commesso dei reati, ma un momento della vita che aiuta a decidere di cambiare vita e voltare pagina. Per questo sono importanti anche i cammini lavorativi perché dopo il carcere l’unica possibilità di recupero dell’ex detenuto è il lavoro, per evitare che commetta altri reati per un problema di sussistenza. Dal punto di vista umano e spirituale non pronuncerei la parola carcere perché il carcere emargina sempre, ma sappiamo bene che per chi compie reati gravi c’è anche una giustizia umana come risposta. Per alcuni tipi di reati la soluzione potrebbe non essere il carcere, non dovrebbe essere questa l’ultima parola. Il carcere deve aiutare il detenuto a comprendere il male compiuto e a rieducarlo, se non riesce in questo rischia di essere un fallimento. Il compito principale del carcere, infatti, non è quello di reprimere ma di redimere e aiutare la persona che ha sbagliato a riprendere in mano la propria vita e a usare, una volta fuori, bene la libertà, senza ricadere nella recidiva. Il problema sta proprio nel fatto che se gli ex detenuti sono emarginati e senza possibilità rischiano di delinquere ancora, c’è quindi anche una responsabilità della società che deve mettersi in ascolto e tendere una mano, accompagnando queste persone fragili che escono dal carcere e che, se non hanno supporti, rischiano di crollare. Dunque, al di là della presenza di cappellani e volontari nelle carceri, fondamentale per mantenere la vita negli istituti attraverso celebrazioni, catechesi, corsi, iniziative lavorative, progetti, quello che la Cei vuole dire è una parola alla società tutta perché è lì che si gioca la partita più importante per il detenuto che esce dal carcere. Poi ci sono detenuti e detenuti: ce ne sono alcuni che hanno una famiglia forte, che li tutela, ma anche tanta povera gente che esce dal carcere e non ha punti di riferimento. Noi cappellani, i volontari, le comunità cristiane ci siamo, ma soprattutto la società civile deve prendere a cuore proprio queste persone più fragili.

Ci sono percorsi di giustizia riparativa?

Soprattutto nelle carceri minorili ce ne sono, è lì che inizia un percorso diverso per gestire la giustizia,

è una cultura nuova che ha bisogno di crescere nel cuore della gente per non puntare solo il dito in senso di condanna ma per aiutare a un cammino di riconciliazione.

La giustizia riparativa è molto importante perché riguarda non solo i detenuti, ma anche le vittime o i loro familiari. Sappiamo, infatti, che sono in tanti a soffrire per le esperienze di morte o di dolore che hanno vissuto in quanto hanno subito violenza da altri.

Il mondo carcerario minorile è stato rilanciato anche al Festival di Sanremo nl monologo di Francesca Fagnani.

È bello che dal palco di Sanremo sia stato lanciato un messaggio. I ragazzi di Nisida hanno parlato attraverso la giornalista e hanno spiegato che, se anche hanno sbagliato, ora hanno bisogno di avere accanto persone che li aiutano. Il messaggio, che richiama una sensibilità particolare verso le carceri, rischia però di rientrare in una moda. È stato, quindi, importante lanciare un messaggio così forte da un palco nazionale e internazionale come quello di Sanremo ma bisogna ora, dopo aver compreso la sofferenza che c’è in questo mondo, accogliere quella provocazione e domandarci tutti cosa possiamo fare concretamente per aiutare questi ragazzi. L’emozione di un momento non aiuta nessuno. Un esempio concreto può essere costituito dai progetti lavorativi che stanno avviandosi negli istituti minorili, sostenuti da Caritas italiana grazie all’8xmille.

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