Lasciate i telefonini, voi che entrate

Il divieto di portarli in aula – tranne quando appunto si decide che possono servire – va inteso come una misura educativa e non repressiva

(Foto ANSA/SIR)

Telefonini in classe, si o no? Sembrerà stucchevole tornare su una domanda del genere, che da tempo si inserisce nel mondo scolastico, tuttavia è tornata di attualità dopo le ultime dichiarazioni del ministro Valditara e una recente trasmissione televisiva, Porta a Porta, durante la quale si è discusso tra l’altro di questo problema, interrogando opinionisti, esperti e anche studenti. Era presente anche il ministro, che non ha fatto mistero di preferire una politica di rigore rispetto agli smartphone: meglio fuori dall’aula.
La trasmissione televisiva è stata interessante, soprattutto per un equivoco di fondo che potrebbe essere parso evidente a chi assisteva da casa e ascoltava le molte dichiarazioni. Un equivoco che si trascina spesso anche nel mondo scolastico, fuori dagli schermi televisivi.

La questione impostata era se fosse più opportuno lasciare lo smartphone a disposizione degli studenti in classe (naturalmente senza permettere loro di chattare indiscriminatamente: ma è possibile?) o se fare in modo che la scuola ne gestisca l’utilizzo, ad esempio ritirandolo all’inizio delle lezioni (e ritirando anche quello dei docenti).

La discussione – che ha beneficiato di testimonianze raccolte in servizi televisivi su scuole che adottano i metodi più diversi: dal cassetto raccoglitore fuori dall’aula all’uso invece attivo nella didattica – si è incanalata sulla contrapposizione tra repressione ed educazione. Togliere il cellulare agli studenti – semplifico – sarebbe un modo coercitivo di intervenire, quando invece sarebbe meglio educare gli stessi ad un uso consapevole e responsabile del device che ormai appartiene alla loro stessa identità. È una prolunga del braccio, come sorridendo potrebbe dire qualcuno.

Qual è l’equivoco di fondo? La contrapposizione tra “reprimere” ed “educare”, come se togliere gli smartphone dalle mani e dagli zaini degli studenti non fosse anche questa una scelta educativa. Tutto qui.

È chiaro a tutti che compito della scuola è (anche) educare all’uso consapevole dei nuovi mezzi tecnologici – si pensi alle emergenze legate al cyberbullismo, allo stalking che avviene spesso tra ragazze e ragazzi attraverso l’uso di chat, video, messaggi: la cronaca insegna – ma se è vero che i telefonini possono giocare un ruolo nelle dinamiche di apprendimento e che ci sono docenti capaci di integrare nella didattica l’uso degli smartphone (questionari, calcoli, ricerche) come dei tablet o della più semplice e diffusa (ma non personale) Lim è anche vero che lo stesso divieto di portarli in aula – tranne quando appunto si decide che possono servire – va inteso come una misura educativa e non repressiva. Si insegna che alcuni strumenti si usano in determinati momenti e in altri no, si decide che in aula vanno privilegiate diverse modalità – tra l’altro ricerche autorevoli sono a supporto della “distrazione” dei cellulari – si insegna, insomma, proprio l’uso consapevole. Anche vietando.
Ecco, qui sta il punto. Ogni azione a scuola ha un orizzonte educativo. E la contrapposizione tra reprimere ed educare non ha senso di esistere. Piuttosto ha senso che le scuole si pongano seriamente e in modo formale il problema, anche di fronte a circolari specifiche, che costringono a pensare. Esiste già un divieto, addirittura con sanzioni – lo ha ricordato lo stesso ministro Valditara – ma proprio questo pone la questione educativa: io scuola, io docente, come mi comporto? Cosa vale la pena di fare con gli studenti che ho di fronte? Come spiego le decisioni e le rendo condivise?
Così andrebbe impostata la questione. Senza contrapposizione tra “liberisti” e “reazionari” – si perdoni ancora una volta la semplificazione – ma solo con la luce accesa sull’intenzione educativa. Questa è scuola.

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