Quale merito?

L’idea fissa nella scuola è “prendere bei voti” onde avere riconoscimenti da quelli a cui teniamo, e se un mio compagno è in difficoltà lo posso pure aiutare, per carità, purché questo non penalizzi i miei di voti, come in quegli antipaticissimi frangenti in cui il secchione non aiuta i compagni in difficoltà non si sa perché, per principio, e viene pure elogiato per i suoi risultati (sulla carta). Ecco, di questi meriti i ragazzi, e la futura società che andranno a costituire, non hanno più bisogno, perché hanno creato quella attuale di società, fatta di atomi in competizione tra loro, che si aggregano per lo più solo per reciproca utilità. Valorizzare il merito ha senso, se tale riconoscimento avrà sempre più di mira le capacità collaborative e relazionali della persona, ripensando nel caso gli stessi parametri valutativi del rendimento. Questo potrebbe aiutare a capire sempre meglio che, solo in apparenza paradossalmente, la specificità di ciascuno sono gli altri

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

La denominazione del Ministero dell’Istruzione, nella sua ennesima variante, ha acquisito anche il “Merito”: Ministero dell’Istruzione e del Merito. Interessante contrasto terminologico, tra qualcosa che arriva (dovrebbe arrivare) dallo Stato al soggetto, e cioè l’istruzione, e qualcosa che dal soggetto dovrebbe emergere onde venire ratificato dallo Stato, il merito. Ho cercato di capire cosa intendesse il nuovo ministro dell’Istruzione a riguardo. Da varie affermazioni raccolte dai media, sembra che il prof. Valditara ci tenga moltissimo, al merito: “Aver coniugato Istruzione e merito è un messaggio politico chiaro”, aveva asserito nelle prime ore del suo mandato il Ministro. Di fatto, sembrerebbe che il termine “Merito” sia stato aggiunto per dare accentuata visibilità a un’idea sul lavoro più che a un approccio didattico: l’idea che gli insegnanti vadano valorizzati in base alle loro competenze specifiche, ai loro meriti (appunto) nella cultura e nel lavoro, con un’attenzione maggiore alle specificità in fase di assunzione.

Quindi il merito sembrerebbe riguardare più i professori che gli studenti, alla fin fine. Beh, non ci sarebbe niente di strano: in fondo gli insegnanti sono la metà di quell’insieme di soggetti interessati dalle scelte del MIUR, pardon, MIM, di cui gli studenti sono l’altra metà.

Non voglio entrare nel merito (si scusi il gioco di parole) della questione politica. Mi limito a dire, da ex insegnante, che indubbiamente è bene che agli uomini e alle donne che si logorano con dedizione per la formazione delle nuove generazioni sia riconosciuta l’importanza del loro contributo, magari gridando questo riconoscimento a partire dalla nuova denominazione di un Ministero, e sperando che tale riconoscimento non si esaurisca in questo, cioè in un modo di dire.

Quanto al merito degli studenti, si tratterà, negli intenti del ministro, di spingere sulla necessità dell’adempimento dell’obbligo scolastico, così che essi possano meritarsi, nel caso, il reddito di cittadinanza, e di valorizzare indubbiamente particolari meriti esperienziali e di rendimento scolastico. Sia nel caso degli insegnanti che in quello degli studenti, quindi, “merito” dovrebbe significare il riconoscimento delle specifiche qualità del cursus del singolo, onde garantirgli benefici di vario tipo.

Eppure, riguardo agli studenti, da ex insegnante e da sacerdote ancora impegnato a tempo pieno nel lavoro pastorale con i giovani, un cruccio circa il merito rimane: ho infatti l’impressione che si parli sempre e solo del merito del singolo che si afferma rispetto alla totalità, dell’individuo che emerge per le sue doti e il suo impegno, e tutto questo è bello e meritevole (appunto) e giusto… ma ancora una volta mi chiedo se la Scuola realizzi davvero la sua missione, se si limita a formare e a incentivare individui, piuttosto che persone relazionali.

Mi spiego: il personalismo cristiano ci insegna che una persona è davvero tale solo nelle e per le sue relazioni, mentre l’individuo, che si regge sulle proprie caratteristiche, tutt’al più rispetto agli altri può ambire solo a un’autoaffermazione. In questo quadro, si vede chiaramente come la scuola fino ad oggi abbia sempre e solo formato individui: i miei voti a confronto con i tuoi, gli elogi per i risultati del singolo, l’accentuata distinzione tra “bravi” e “somari”, ecc. (colleghi, non provate a negare, nei consigli di classe c’ero anch’io fino a tre anni fa). Portato neanche troppo all’estremo, questo modo di concepire la scuola farebbe (fa) ritenere che se in una classe tutti andassero male tranne uno, quel singolo eletto andrebbe enormemente elogiato, forse anche compatito per il livello dei suoi compagni.

E qui sta la trappola, perché nella vita non funziona così. Una persona che in un contesto lavorativo portasse avanti con determinazione solo il suo pezzo, incurante del contesto, semplicemente non potrebbe raggiungere i suoi obiettivi. Caratteristiche come la collaborazione, l’attenzione all’altro, la valorizzazione dei doni altrui ecc. sono le uniche che garantiscono un vero successo duraturo nel mondo del lavoro, perché il lavoro è sempre lavoro di squadra, anche quando non sembra.

Ma la scuola, ad oggi, purtroppo non forma a questo: educa il singolo, ma non lo educa alla relazione con gli altri, e a lavorare con loro. Uno studente può stare male nella sua classe per cinque anni, e nessuno vede in ciò un problema… “Poverina, gli altri sono invidiosi perché è tanto studiosa”.

L’idea fissa nella scuola è “prendere bei voti” onde avere riconoscimenti da quelli a cui teniamo, e se un mio compagno è in difficoltà lo posso pure aiutare, per carità, purché questo non penalizzi i miei di voti, come in quegli antipaticissimi frangenti in cui il secchione non aiuta i compagni in difficoltà non si sa perché, per principio, e viene pure elogiato per i suoi risultati (sulla carta).

Ecco, di questi meriti i ragazzi, e la futura società che andranno a costituire, non hanno più bisogno, perché hanno creato quella attuale di società, fatta di atomi in competizione tra loro, che si aggregano per lo più solo per reciproca utilità.

Valorizzare il merito ha senso, se tale riconoscimento avrà sempre più di mira le capacità collaborative e relazionali della persona, ripensando nel caso gli stessi parametri valutativi del rendimento. Questo potrebbe aiutare a capire sempre meglio che, solo in apparenza paradossalmente, la specificità di ciascuno sono gli altri.

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