Nell’introduzione al recente Consiglio permanente della Cei, il card. Matteo Zuppi, ha dedicato ampio spazio all’Europa e ai temi europei. Tra questi il valore storico del processo di integrazione e i risultati raggiunti tramite la cooperazione tra gli Stati “nella coscienza – ha precisato il presidente dei vescovi italiani – di avere un destino comune di pace tra i Paesi dell’Europa”. Per un’analisi e un approfondimento, il Sir ha raccolto il commento di padre Giuseppe Riggio (nella foto), gesuita, direttore della rivista “Aggiornamenti Sociali”.
Direttore, come considera l’intervento di Zuppi? Può essere un segnale interessante nel momento in cui il cammino dell’Ue fatica a reggere le sfide di questa epoca?
Il passaggio dedicato dal card. Zuppi all’Europa proprio all’inizio della sua prolusione è lucido, perché tiene insieme una valutazione equilibrata del cammino di integrazione che gli Stati europei hanno percorso dal dopoguerra a oggi e una lettura realistica della situazione attuale, senza tuttavia cedere al pessimismo o al disfattismo. Può sembrare paradossale, ma gli eventi degli ultimi tre anni, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, confermano quanto sia stato lungimirante il sogno di pace che ha portato alla nascita negli anni ’50 delle istituzioni europee, che ha dato e continua a dare forza e senso al progetto europeo. Se viene relegato in secondo piano – come è accaduto nel passato recente, quando è stato erroneamente considerato come un risultato ormai acquisito – gli squilibri e gli inceppamenti nel cammino europeo non tardano a palesarsi. In questa fase storica confusa, in cui i motivi di preoccupazione sono numerosi, è allora importante porsi le domande “giuste”, quelle che permettono di alzare lo sguardo e tracciare un percorso che vada al di là della risposta alle emergenze del momento. Come accadde nel secondo dopoguerra, mi sembra che, come europei, dovremmo tornare a chiederci che cos’è la pace, come vogliamo costruirla e con quali compagni di cammino. Possono suonare come interrogativi anacronistici, forse utopici, ma permettono di delineare un orizzonte sensato, un passaggio essenziale per iniziare a muoversi.
L’Europa comunitaria, ha affermato Zuppi, è “una via verso il futuro, forse più di quanto i cittadini avvertano a causa della distanza delle istituzioni comunitarie”. C’è, allo stesso tempo, uno sguardo fiducioso in avanti, ma anche un forte richiamo a cittadini e istituzioni nel segno di una democrazia partecipativa?
Nel nostro Paese, la distanza dei cittadini dalle istituzioni, al pari della scarsa fiducia nei confronti della classe dirigente, non riguarda solo l’Unione europea, ma anche la politica nazionale. Le esperienze di democrazia partecipativa sono già diffuse in altri Paesi europei e stanno crescendo anche in Italia, come gli esempi di assemblee dei cittadini per l’ambiente realizzate in alcune città. Sono strumenti preziosi perché favoriscono il dialogo tra i cittadini, l’amministrazione pubblica e i politici. Sono anche strumenti “costosi” in termini di impegno organizzativo e di tempo. Ed è normale che sia così: la cura dei processi democratici per essere effettiva non può basarsi sul fare economia di creatività, idee, pazienza e tempo per dialogare. La forza di queste esperienze sta nel dare centralità al confronto tra i portatori di vari interessi e nel creare spazi istituzionali che lo rendano possibile. A mio parere questo aspetto è molto promettente, anche per ridare slancio alla democrazia rappresentativa, di cui non possiamo fare a meno, ma che dobbiamo ripensare alla luce del contesto politico, sociale e culturale attuale, che non è più quello del Novecento. Allo stesso tempo non basta che vi siano alcuni spazi istituzionali, ma sarebbe fondamentale che si moltiplichino i luoghi fisici formali e informali in cui come cittadini possiamo ritrovarci per parlare dei temi piccoli e grandi legati al vivere insieme a livello locale, nazionale e anche europeo.
Non è mancata, nelle parole del presidente Cei, una sorta di “indicazione” rivolta alla Chiesa italiana e alle Chiese europee, intesa a “portare – ha detto – il nostro sostegno al continente, per un suo consolidamento come realtà di democrazia, pace e libertà, per la difesa della persona umana”. Come dare consistenza a tale richiamo nella vita delle comunità cristiane?
Vedo due contributi possibili. Il primo e fondamentale è di far crescere la conoscenza che si ha della dimensione europea, che sia oggettiva e capace di proporre critiche costruttive. I momenti che vengono organizzati in occasione di importanti appuntamenti, spesso di carattere elettorale, sono già significativi, ma l’ideale sarebbe riuscire a passare dal singolo evento a un’attenzione e riflessione continuative, che diventino ordinarie. A questo si lega il secondo contributo, che si riaggancia anche a quei luoghi di dialogo che menzionavo prima. Nella storia del nostro Paese questi luoghi esistevano ed erano vivi, legati alle varie realtà dei corpi intermedi, che però da decenni attraversano una profonda crisi di partecipazione. Ritengo che un rinnovato impulso possa essere dato proprio dalle comunità cristiane. Non si tratta di creare luoghi schierati, ma riconoscere che possiamo attingere alla nostra tradizione ed esperienza per costruire spazi in cui sia effettivamente possibile dialogare, a disposizione di quanti vogliano coinvolgersi e mettersi in gioco, condividendo quei valori menzionati dal card. Zuppi.
Da Gorizia, città di confine, i vescovi italiani, sloveni e croati hanno inviato un messaggio congiunto che va oltre le frontiere, richiamando i valori della “nonviolenza, il dialogo, l’ascolto e l’incontro come metodo e stile di fraternità”. Un appello alla pace, seguito da un riferimento alla drammatica situazione di Gaza…
Si tratta di un appello significativo per la storia del luogo da cui proviene. Il confine che ha diviso Gorizia e Nova Gorica negli anni della Guerra fredda non ha impedito ai sindaci delle due città di incontrarsi negli anni ’60, convinti che i legami, sicuramente dolorosi e complessi, tra le due comunità non erano certo spariti per via del muro costruito anni prima. È un episodio, non l’unico, che mostra come i muri, visibili e invisibili, che separano uomini e donne, comunità e popoli, non sono per sempre, ma possono essere sgretolati nel tempo se vi è una radicata volontà di pace.

