Mentre si avvicina la Pasqua, si fa più viva la speranza di vedere volare, presto, nei cieli dei territori dove si combatte, la “colomba” simbolo di pace e di riconciliazione. Una speranza condizionata, purtroppo, da quei comportamenti e linguaggi che non tralasciano occasione per esprimersi in termini di guerra. “Il giorno della liberazione”, con l’introduzione di dazi punitivi, annunciato da Trump, è arrivato lo scorso 2 aprile, generando un clima di preoccupazione nel gran numero dei Paesi colpiti, Italia e Unione europea compresa. Un provvedimento che, oltre a minare la credibilità dello Stato leader nel mondo, provocherà forti danni alla stessa economia americana, prima che a quella del resto del mondo. I dazi, infatti, nella storia dell’umanità non hanno mai prodotto crescita, ma aumento dei prezzi e danni per imprese, lavoratori, poveri e soggetti vulnerabili. Volere, in più, aumentare le entrate fiscali, utilizzando un sistema primordiale, quale sono i dazi, non solo rappresenta una misura discutibile, ma rischia di distruggere quell’ordine commerciale costruito proprio dagli americani. E, in più, suscita le reazioni da parte dei Paesi colpiti e pone le premesse per possibili ulteriori scontri di ogni genere. Di guerra, in guerra! La “guerra dei dazi” va, infatti, ad aggiungersi alle guerre militari, più drammatiche, ovviamente, che si combattono in ogni parte del mondo. Dove vuole arrivare Trump, ci si chiede, con questa sua politica belligerante? Eppure, il suo avvento alla Presidenza degli Stati uniti aveva fatto sperare molti nel miracolo. Se fosse stato lui presidente, ripeteva spesso, la Russia non avrebbe mai invaso l’Ucraina e, aggiungeva, che una volta rieletto avrebbe ristabilito la pace in ventiquattro ore. E in effetti, lo scorso 18 gennaio, due giorni prima del suo insediamento, fra Israele e Hamas veniva siglato un accordo per il cessate il fuoco, infranto, dopo soli due mesi, da Israele, con il beneplacito, si dice, degli USA. Una prova questa, se ce ne era bisogno, che la pace in Medio Oriente, come in Ucraina, non è una questione di 24 ore e che la pace stessa non può ottenersi per atto d’imperio. Oltre alla volontà sincera delle parti, richiede tempi e processi dettati dalle tante motivazioni storiche, politiche e, perfino, religiose che sottostanno alla base dei conflitti. Ora l’attenzione si è spostata sul fronte dell’Ucraina, dove Trump, dopo avere riportato, inopinatamente, Putin al centro della scena politica, ne sta sperimentando l’arroganza e l’intransigenza: il giorno della pace si allontana e gli ucraini continuano a morire sotto le bombe. E così, fra “terre rare e terre perdute”, per l’Ucraina si prospetta una pace ingiusta e precaria, con tutte le conseguenze che ne deriveranno. E, nel frattempo, il quadro politico e diplomatico, a tutti i livelli, si fa sempre più confuso e complicato. Come si può essere credibili se, mentre si dice di volere la pace, si minaccia “a destra e a manca” e si pretende di volere conquistare, “con le buone o le cattive”, Stati sovrani (Groenlandia e Canada)? Che fine ha fatto il dialogo e l’arte della mediazione? La pretesa di Trump di rivoluzionare unilateralmente e in un breve volgere di tempo gli assetti mondiali, sta portando alla dissoluzione di accordi e alleanze storiche e strategiche che hanno assicurato al mondo un lungo periodo di pace. L’eccessiva ostilità mostrata da Trump nei confronti dei Paesi dell’Unione europea, definiti “sfruttatori, scrocconi e parassiti”, rischia, inoltre, di rompere un’alleanza politica, militare ed economica, fondata su una visione condivisa di un modello di società basato su diritto, solidarietà e democrazia. L’auspicio è che il Presidente degli USA, in una presa di coscienza, possa comprendere che la linea intrapresa non è quella più idonea per il Paese più grande del mondo e che le alleanze, ancorché rompersi, vanno fortificate. «C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”, ha detto Papa Francesco in un’intervista. “Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità».
Di guerra in guerra
Mentre si avvicina la Pasqua, si fa più viva la speranza di vedere volare, presto, nei cieli dei territori dove si combatte, la “colomba” simbolo di pace e di riconciliazione. Una speranza condizionata, purtroppo, da quei comportamenti e linguaggi che non tralasciano occasione per esprimersi in termini di guerra.