Caso Ilaria Salis: i ceppi non sono civiltà

Papa Francesco ieri ha lavato i piedi alle detenute del carcere romano di Rebibbia. Un gesto che ci ha permesso di ri-vivere il Giovedì Santo della misericordia e dell’umanità. Un messaggio evangelico. Nello stesso giorno, Ilaria Salis, anche lei detenuta (accusata a Budapest di aver aggredito 13 mesi fa due estremisti neofascisti), entrava in un’aula di tribunale con le catene alle mani e i ceppi ai piedi, trascinata al guinzaglio e guardata a vista da agenti incappucciati e armati fino ai denti

(Foto ANSA/SIR)

Papa Francesco ieri ha lavato i piedi alle detenute del carcere romano di Rebibbia. Un gesto che ci ha permesso di ri-vivere il Giovedì Santo della misericordia e dell’umanità. Un messaggio evangelico. Nello stesso giorno, Ilaria Salis, anche lei detenuta (accusata a Budapest di aver aggredito 13 mesi fa due estremisti neofascisti), entrava in un’aula di tribunale con le catene alle mani e i ceppi ai piedi, trascinata al guinzaglio e guardata a vista da agenti incappucciati e armati fino ai denti.
Una vicenda opportunamente politicizzata a Budapest e che certo richiederebbe un’Italia unita nel pretendere il rispetto dei diritti umani. Se è vero che in un tribunale la parola “misericordia” può forse suonare fuori luogo, è altrettanto vero, come ci ricordava ieri il Papa, che l’umanità non dovrebbe mai mancare.

Del resto il mancato rispetto dei diritti umani, quale garanzie di imparzialità può assicurare?

Il caso di Ilaria Salis (cui sono stati negati i domiciliari), insegnante 39enne, semplicemente definita “attivista”, mostra che la politica, se colpita dal virus dell’ideologia, può inquinare ogni ambito, giustizia compresa, trasformandola in giustizialismo. La magistratura ungherese sembra aver smarrito la sua necessaria autonomia.

La detenzione della Salis, al di là dello stesso reato che le viene imputato, sta mostrando il volto più duro del potere ungherese. Il suo caso richiederebbe una diversa e compatta presa di posizione da parte della politica italiana che invece si mostra ancora incerta e soprattutto divisa. Una situazione reale su cui pesano sia i rapporti col premier ungherese Viktor Orban sia il perverso meccanismo delle candidature alle europee. Ilaria Salis avrebbe invece bisogno di trovare dietro di sé un Paese unito, che confida nel giudizio equo di una magistratura indipendente e che pretende un trattamento umano per una – va ricordato – presunta innocente, fino a prova contraria.
Tutto questo per dire che il caso-Salis è diventato eminentemente un caso politico che genera automaticamente dei problemi.

Il primo riguarda le condizioni carcerarie. Tredici mesi di carcere disumano per un eventuale reato da dimostrare. Una detenzione priva dei doverosi diritti e delle indispensabili garanzie da assicurare a qualunque detenuto (nel caso Salis cella piccola e sporca, un’ora d’aria al giorno, difficoltosi rapporti con familiari e avvocato, portata davanti ai giudici come il peggior delinquente). Garanzie e diritti che, è opportuno ricordarlo, sono dovuti a ogni detenuto, in ogni parte del mondo. La disumanità non fa assolutamente parte della eventuale condanna che spetta verso chi ha sbagliato nei confronti della società.

L’altro implica una necessaria riflessione, che parte dall’Ungheria ma che inevitabilmente raggiunge gli altri Paesi membri fino a raggiungere come una freccia il cuore dell’Unione: l’Europa è ancora la culla della civiltà? È ancora capace di tutelare i diritti umani di tutti, dei poveri e dei migranti, delle donne e dei bambini, dei lavoratori e di chi necessita cure adeguate, di chi è stato chiamato alla vita e rischia di non arrivarci mai e di chi invece la vita deve chiuderla in maniera dignitosa?

Ieri, il Papa, lo abbiamo detto, ci ha di  nuovo mostrato che questo mondo, compresa la sua parte più oscura e difficile, ha bisogno di misericordia. Nessuno quindi si aspetta la lavanda dei piedi alla Salis. Ma i ceppi non sono civiltà.

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