Ucraina: Leopoli, parrocchie e monasteri in prima linea nell’accoglienza

Una delegazione di Acs in visita di solidarietà a Leopoli ha incontrato ieri alcuni profughi accolti nel monastero benedettino di san Giuseppe, dove le monache suonano le campane per dare l'allarme aereo, e nella parrocchia di san Giovanni Paolo II. Testimonianze di guerra con l'orrore di Bucha, raccontato da una testimone di quei giorni, Olga Stroieva.

Leopoli, monastero san Giuseppe (Foto Sir)

(Da Leopoli) “Non c’è nulla da raccontare. Abbiamo visto uccidere i nostri vicini e la nostra abitazione andare quasi del tutto distrutta. Abbiamo perso tutto in un attimo. Siamo stati un mese in viaggio, tra strade bloccate e campi minati, per arrivare qui a Leopoli dove abbiamo trovato rifugio”: Andryi, con sua moglie Elizabeth e il figlio Pavlo, affetto da sindrome di Down, vengono da Mariupol, una delle città martiri della guerra scoppiata il 24 febbraio scorso, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Una settimana fa sono arrivati, tra mille difficoltà, nel monastero benedettino femminile di san Giuseppe a Leopoli. La loro vita, tornata sui binari di una finta normalità, è ripartita da qui, in una stanza con tre materassi poggiati a terra, arredata con un piccolo armadio sufficiente a contenere le poche cose che sono riusciti a portarsi dietro da Mariupol. Sono gli ultimi arrivati nel monastero dove le monache benedettine accolgono attualmente 97 persone, di queste ben 42 sono bambini. Per poterlo fare hanno anche sospeso la clausura.

“Fui ospite, e voi mi riceveste”. La comunità monastica, composta da 17 monache, guidate da madre Clara, la badessa, ha fatto propria la Regola di san Benedetto che al capitolo 53 dice: “Tutti gli ospiti che arrivano, siano ricevuti come se fosse Cristo Signore; poiché egli dirà un giorno: Fui ospite, e voi mi riceveste”.

Leopoli, monastero san Giuseppe (Foto Sir)

Così il monastero è diventato un luogo di accoglienza dei profughi senza per questo perdere la sua natura di luogo di preghiera, di contemplazione e di silenzio. “A parte le grida dei bambini che giocano nel chiostro” dice sorridendo suor Maria che parla un ottimo italiano, forte degli anni di studio trascorsi in Italia. “La maggior parte dei nostri ospiti si è ben integrata con il ritmo di vita del monastero. Non è raro vederne alcuni partecipare alla nostra preghiera quotidiana, attratti anche dal canto gregoriano. Si sono adattati agli orari dei pasti e del lavoro, aiutano in cucina, si danno da fare nell’orto, nel giardino, nella pulizia del luogo. Contribuiscono con il loro lavoro alla vita di questa comunità allargata”. Ad aiutare l’opera delle monache è la Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che grazie ai suoi benefattori ha fornito alla comunità monastica la grande cucina che viene utilizzata per preparare i pasti. Dallo scoppio della guerra Acs ha stanziato oltre 2,5 milioni di euro per sostenere gli sfollati. E la visita di questi giorni serve per avviare nuovi progetti.

La speranza, per tutti, è che “la guerra finisca presto” così da tornare a casa e riabbracciare i propri mariti, compagni, parenti, impegnati a combattere. In questi giorni Leopoli è stata oggetto di attacchi missilistici, ma le monache non si sono perse d’animo. “Ogni volta che si prevede un allarme aereo – dice suor Maria – consultiamo la nostra app sul telefonino che avvisa di possibili attacchi e cominciamo a suonare le campane del monastero per avvertire tutto il circondario. In questa zona le sirene antiaereo non arrivano così avvisiamo noi con le campane la gente del posto”.

L’orrore di Bucha. Non distante dal monastero si trova la parrocchia di san Giovanni Paolo II. Il parroco, don Gregorio Draus, polacco di Lublino, ospita nel centro pastorale attiguo alla chiesa ben 170 profughi, anche qui i bambini e i ragazzi sono tanti, circa 40. Ma ci sono anche persone anziane. Ad aiutare don Gregorio, un giovane seminarista Vitalii Dmytryshyn e 30 volontari che si danno il cambio ogni giorno. “Abbiamo cominciato ad accogliere i primi profughi, erano 8, subito dopo lo scoppio della guerra, il 24 febbraio” ricorda il parroco. “Avevamo circa 100 euro da spendere e abbiamo acquistato da mangiare” aggiunge Vitalii. “I profughi aumentavano giorno dopo giorno con l’intensificarsi dei combattimenti ma ci siamo accorti che aumentava anche la Provvidenza. Non c’è mai mancato nulla”. Oggi nel piazzale antistante la parrocchia un parco giochi per i più piccoli, un tendone dove si smistano abiti e si conserva il cibo a lunga conservazione, mentre all’interno è stata organizzata una sorta di reception per fornire ogni informazione utile ai profughi e un piccolo ambulatorio, aperto 24 h grazie a due medici volontari venuti dalla Francia.

Leopoli, parrocchia s.Giovanni Paolo II, Ruslana (Foto Sir)

Si avvicina Ruslana, fuggita da Donetsk allo scoppio della guerra, tanta voglia di parlare. Un impiego nel comparto ‘Giustizia’ dell’amministrazione pubblica, racconta della sua “fuga a causa della guerra, della morte di tanti giovani e del desiderio di vivere in pace nella nostra terra. Invece siamo stati costretti a nasconderci nei bunker per lunghi giorni, uscire era pericoloso, non potevamo fare altro che restare nascoste. Come si poteva vivere così?” si chiede con le lacrime agli occhi mentre indica le sue due compagne di stanza che riposano a terra sui materassi. “Grazie a Dio oggi siamo al sicuro, qui abbiamo tutto ciò che ci serve cibo, vestiti, lavatrice, frigo, possiamo lavarci, ci sentiamo come a casa, anche se lontani”.

Olga Stroieva, da Bucha (Foto Sir)

Anche Olga Stroieva, 33 anni e tre figli, di 16, 15 e 9 anni, tra le poche persone di fede musulmana nel centro, ha la sua storia da raccontare: “Vengo da Bucha” esordisce, “facevo la parrucchiera e vivevo con i miei figli dopo la separazione da mio marito”. Bucha, la cittadina a nordovest di Kiev, dove si è consumata una delle pagine più aberranti di questa guerra, con cittadini uccisi in strada. Immagini che hanno sollevato una serie domande su eventuali “crimini di guerra” commessi dai russi. “Sono andata via da Bucha il 10 di marzo grazie ad un corridoio umanitario. La mia casa era stata distrutta dalle bombe e anche la mia auto. Così il primo pensiero è stato quello di andare via e portare in salvo i miei figli . Siamo tornati qualche giorno dopo per vedere in che condizioni era la mia abitazione e ho trovato la città occupata dai russi. Abbiamo atteso il corridoio umanitario per andarcene. Quel giorno davanti a me c’era un uomo con una bici e i russi lo hanno ucciso a sangue freddo. Poi hanno anche sparato ad una vettura di una ong che portava aiuti umanitari. Mentre camminavamo ho messo le mie mani davanti agli occhi di mio figlio più piccolo per evitare che vedesse tutti quei morti. Persone crivellate di colpi lasciate in strada, c’erano anche bambini riversi a terra, morti. Ora ho saputo che l’esercito ucraino sta bonificando la zona e che la vita sta riprendendo”. “Spero di tornare a Bucha – conclude – ma non c’è lavoro quindi proverò a cercare una nuova occupazione qui o altrove. Io e i miei figli dobbiamo ricominciare a vivere. Non ci arrendiamo”.

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