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Rinascimento europeo: i risultati ci sono, ma troppi ostacoli mettono in pericolo l’Ue

Obiettivi e criticità per l’Unione europea da qui all’estate 2022. La lotta al Covid, la campagna vaccinale, il Piano per la ripresa economica attestano una concreta capacità di risposta alle nuove sfide. Non mancano però nodi irrisolti sul versante politico e per il rispetto dello stato di diritto e degli stessi valori europei. Tra i dossier aperti figurano migrazioni, clima, energia, Patto di stabilità e crescita, politica estera... "Serve una risposta unitaria per non lasciare il campo a nazionalisti e populisti"

(Foto SIR/European Commission)

Sin dagli esiti dei risultati delle elezioni europee del maggio 2019 e poi con l’insediamento della Commissione Von der Leyen a novembre 2019, l’Unione europea ha vissuto l’inizio di un nuovo Rinascimento. Siamo forti dei risultati senza precedenti di questi primi due anni, ove si è vissuta la più grave crisi della storia dell’Unione, la pandemia Covid-19. Risultati giustamente rivendicati nello Stato dell’Unione presentato lo scorso settembre, con una capacità inedita di unità, innovazione, tempestività ed efficacia delle azioni svolte, inserite in un quadro di rafforzata visione del ruolo e del futuro dell’Ue, sia per quanto attiene l’obiettivo di autonomia strategica che per la volontà di svolgere un ruolo di leadership nella transizione climatica ed energetica ormai intrapresa con decisione. La risposta alla crisi pandemica e il successo indubbio della campagna vaccinale nel continente, con un impegno anche più consistente di altri verso altre regioni del mondo; la strategia di ripresa e resilienza e gli strumenti adottati in tempi record e già tradotti in piani operativi approvati e operativi per la grande maggioranza degli Stati membri, sono successi indubbi.
Ma ci sono diversi nodi che ora vengono al pettine e rischiano di rendere quantomeno assai travagliata se non anche a rischio la rotta di Rinascimento intrapresa.In primis, lo scenario politico. I non semplici negoziati per la formazione di un nuovo governo in Germania dopo la fine della lunga e stabilizzante era Merkel; la campagna per le presidenziali francesi della prossima primavera e le sue incertezze; le turbolenze politiche che interessano un numero crescente di Paesi centro-orientali, dalla Romania alla Bulgaria, dall’Austria alla Repubblica Ceca, per giungere alle elezioni ungheresi dell’aprile 2022; il rinnovo della Presidenza del Parlamento europeo il prossimo gennaio, ove si registra una crescente fibrillazione tra i gruppi politici e anche all’interno di alcuni di loro; le possibili tensioni per l’eventuale rinnovo del mandato al Presidente del Consiglio europeo, il prossimo maggio 2022. Cui potrebbero aggiungersi ulteriori criticità sia nel caso del governo di minoranza in Spagna che nel caso italiano, di cui si hanno già i primi segnali significativi, anche legati alla scadenza del rinnovo della Presidenza della Repubblica. Tutti elementi che rendono meno stabile il quadro politico e perlomeno vedranno più “sola” la Commissione europa. Diventeranno così più complessi gli accordi sui principali dossier politici dell’Agenda europea, e diventa probabile il loro rinvio. Che non è certo una buona notizia.
In secondo luogo, la crisi sempre più acuta intorno alla pietra d’angolo della intera costruzione europea e cioè lo Stato di diritto e la questione della supremazia del diritto europeo sul diritto nazionale. Il caso deflagrante della Polonia, che configura una possibile, ma a mio modo di vedere improbabile, #Polexit, aggiunge carne al fuoco già esistente, sia nel caso della Polonia che in quello dell’Ungheria. Dopo i rilievi della Corte costituzionale tedesca, anche recenti, la voragine diventa sempre più vasta e trova eco in posizioni non solo di movimenti sovranisti di tutta Europa, ma anche in posizioni di leader del calibro di Michel Barnier (sulle questioni dell’immigrazione) e di non pochi governi del centro Europa. Significativo che anche il governo sloveno, che detiene la Presidenza semestrale di turno, abbia di fatto espresso posizioni molto problematiche e di fatto allineate con i Paesi che rivendicano la supremazia del diritto nazionale. Questo fronte di conflitto sarà a mio avviso sempre più centrale, con divisioni politiche dalle conseguenze preoccupanti.
Si rafforza infatti quella logica riduzionistica del ruolo dell’Unione, per molti Stati una Europa “à la carte”: pago quando mi conviene, prendo tutto ciò che mi serve e anche di più, applico le norme comuni che mi convengono a seconda delle opportunità e delle situazioni, ma impongo sempre il freno al tentativo di progredire e rafforzare l’azione comune, usando tutte le possibilità concesse dal voto all’unanimità in Consiglio. Che siano le politiche sociali, la politica estera, le sanzioni alla Russia, le questioni migratorie, l’Unione bancaria o le politiche fiscali. Se i valori e i principi su cui basa l’Unione e scritti nei Trattati non sono più la base comune e se sulle singole politiche, di volta in volta definite sensibili per il rispettivo dibattito nazionale, si alza la barriera della sovranità nazionale, beh l’edificio si sgretola.
In terzo luogo, il dossier migrazioni e rifugiati che si trascina ormai da 8 anni, senza decisioni, unità e soluzioni all’altezza dei tempi. Anzi con un ripiegamento sempre più evidente su quella logica di una Europa fortezza, difesa da muri, reti di filo spinato, truppe addestrate ed equipaggiate per respingere, anche in violazione dei fondamentali diritti umani sanciti dalle Convenzioni internazionali. Il Patto presentato dalla Commissione ormai un anno fa, pur molto prudente ma olistico, non fa nessun passo avanti. Anzi, gli elementi di divisione aumentano come dimostrato ancora dalla recente lettera dei 12 governi europei. E siamo ben lungi dal prendere sul serio la ormai certa, prossima e gigantesca crisi dei “rifugiati climatici”, stimati per prudenza in 250 milioni di persone. Nuova merce per i trafficanti e le carrette del mare o per gli Stati che li usano ieri alle frontiere meridionali ora anche a quelle orientali, come arma di pressione politica sull’Unione.
In quarto luogo, la inaspettata, ma prevedibile, crisi del prezzo del gas, con ricadute devastanti sul prezzo finale dell’energia, ma anche la crisi della complessa catena di approvvigionamento mondiale delle materie prime e dei lavorati necessari ad assicurare la transizione digitale ed energetica in corso. Un duro colpo alle rosee prospettive della ripresa postpandemica in corso, per il tessuto produttivo e i consumatori finali, con un consistente impatto sulle fasce più povere e sulle regioni più marginali dell’Ue. Non mancano i crescenti segnali di resistenze non secondarie all’agenda della transizione energetica e al pacchetto “Fitx55” presentato dalla Commissione a luglio e sul quale debbono esprimersi sia il Parlamento che il Consiglio nei prossimi mesi, col rischio di proteste sociali estese, prontamente sfruttabili dai tanti movimenti antieuropei e sovranisti di tutta Europa. Aspettiamo il prossimo momento della verità della Conferenza sul clima di Glasgow. Per ora registriamo con grande preoccupazione il World energy outlook speciale, appena pubblicato dall’Agenzia internazionale dell’energia, il più autorevole rapporto sulla materia. In esso si dice che le turbolenze sui mercati internazionali dell’energia non rallenteranno nel breve periodo e che le rotte intraprese da molti Paesi per la transizione energetica sono consistenti ma ancora lungi dall’essere sufficienti per raggiungere i target climatici che si è convenuto siano ormai urgenti.
Nodi di crisi che non favoriranno certamente altri due dossier rilevanti dell’Agenda europea: la riforma del Patto di stabilità e crescita, per il quale il dibattito sta cominciando ad entrare nel vivo, con i posizionamenti dell’Ecofin di settembre e la promessa, per quanto ancora limitata, dell’Unione europea della difesa. Senza avere qui evidenziato i molti scenari critici nelle relazioni esterne dell’Ue, dalla frontiera est, alla inconcludenza dell’ultimo summit sui Balcani che lascia di fatto mano libera in quell’area ad altri interessi (cinesi, russi, turchi, ecc.) alla Turchia, all’Africa e in particolare all’area del Sahel, dove si sta rafforzando la possibile costruzione di un nuovo califfato di matrice estremista, quale quello per ora sconfitto in Siria e Iraq. O ancora la perdurante conflittualità nel divorzio della Brexit, con il dossier dell’Irlanda del Nord che ribolle.
Certo gli elementi di divisione e di crisi non sono mai mancati nella travagliata costruzione europea, che è pur sempre avanzata. Ma la rilevanza sistemica e nevralgica di alcuni di quelli richiamati rischia non solo di impedire quella unità di intenti efficace e percepita dei primi due anni, ma anche di mettere a rischio il conseguimento di quei risultati di trasformazione, autonomia strategica e rafforzamento del ruolo dell’Ue, al suo interno e verso l’esterno, che è stata la promessa e la cifra del percorso europeo in questa prima metà della legislatura, iniziata con le elezioni del maggio 2019. Insomma, forse la via del Rinascimento europeo intrapresa subirà solo qualche significativa battuta di arresto da qui alla prossima estate, o forse potrebbe anche finire sugli scogli o essere travolta dalle tempeste.
Il dado non è tratto. Ma proprio per questo è necessaria una forte, unitaria e lungimirante azione delle principali forze politiche, sociali, economiche, culturali e spirituali europee. Perché, come avvenne nel 2019, non si lasci il campo a chi vuole fare arenare questo Rinascimento europeo.

(*) già presidente Comitato economico e sociale Ue

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