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Mons. Overbeck (Comece), “non un incidente negli ingranaggi del mondo ma una prova per la fede e il senso della vita”

Lo choc per il numero dei morti che in Europa, in questo anno di pandemia, ha fatto il Coronavirus. Circa 900mila senza contare le 125mila vittime del Regno Unito. A loro e ai loro familiari va il primo pensiero del vescovo di Essen, mons. Overbeck, che in questa intervista al Sir, a nome dell’episcopato dell’Unione Europea, stila un “bilancio” di questo difficile anno. Il vescovo parla del grido di disperazione che arriva dai poveri: “Fate qualcosa! Non dimenticatevi di noi”. E poi osserva: “Il Coronavirus non è stato un incidente operativo negli ingranaggi del mondo. È di più, è una prova anche della nostra fede e di come trattare la vita, soprattutto per noi cristiani”.  

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Era l’11 marzo di un anno fa quando il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, definì per la prima volta il Covid-19 “pandemia”. E mise in allerta: “Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione”. Da allora, è passato un anno e il virus ha causato nel mondo più di 2 milioni e mezzo di morti. In Europa il numero delle vittime (aggiornate al 9 marzo 2021) è 890.240, senza contare le oltre 125mila vittime del Regno Unito. “Sono anch’io scioccato dalla dimensione di questa pandemia, una minaccia così grande che non si vedeva dal secolo scorso”, confida subito mons. Franz-Josef Overbeck, vescovo di Essen (Germania) e vice-presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea al quale abbiamo chiesto di “stilare” un bilancio, anche personale, di questo anno appena vissuto.

Quale il suo primo pensiero?

Due immagini sono impresse nella memoria: la preghiera di papa Francesco per la fine della pandemia in una piazza deserta di San Pietro e la lunga fila di veicoli militari in Italia che trasportavano un numero incredibilmente alto di defunti. Vorrei però anche dire che la pandemia non è stato e non è un evento apocalittico ma un fenomeno naturale e una prova. Sì, un disastro ma che richiede oggi un’azione decisiva ed efficace per limitare i danni e le numerose conseguenze.

Cosa ci ha insegnato questo anno di Coronavirus?

Ha lasciato in tutti la speranza che migliori presto la situazione. Il filosofo tedesco Kant, si chiedeva, “in cosa posso sperare?”. Per Kant la religione ha il compito di rispondere a questa domanda e anche noi, con la nostra fede cristiana, possiamo dare una risposta. Una risposta che apre uno spazio ad un tipo particolare di futuro, e cioè il futuro di vivere con Dio. Siamo poi diventati consapevoli di essere entrati in una via dalla quale non possiamo tornare allo stato in cui eravamo prima. L’esperienza dalla pandemia lascerà tracce durature, abitudini nuove. E infine gli effetti del lockdown sull’ambiente ci mostrano quanto forte sia l’impatto dell’uomo sull’ecosistema. L’assenza forzata di spostamenti e attività ha dato alla natura un vero respiro e in futuro dovremmo imparare da questa esperienza.

Il Coronavirus ha messo l’uomo che soprattutto in Europa si credeva invincibile, di fronte alle sue fragilità.

Il Coronavirus non è stato un incidente operativo negli ingranaggi del mondo. È di più, è una prova anche della nostra fede e di come trattare la vita, soprattutto per noi cristiani. Questo ci obbliga in qualche modo a fare un esame di coscienza individuale e collettiva e a chiederci: Come reagiamo in situazioni di crisi? Come possiamo assicurare il bene comune, a partire soprattutto dai poveri e dai più fragili tra noi? Come rendere giustizia a questa situazione?

In effetti, l’Europa si ritrova più povera e più debole. L’epidemia ha colpito le economie. I poveri sono aumentati. Quale “grido” questi nuovi poveri lanciano oggi ai governi nazionali e all’Unione Europea?

Percepisco un grido di disperazione che si basa su sentimenti di incertezza e impotenza non provati fino ad oggi in maniera così grave. Molte persone hanno perso il lavoro, altri non possono più portare avanti le loro occupazioni. Molti ancora si ritrovano in casa ed hanno poche opzioni per sfuggire da queste situazioni di crisi. Questo grido di aiuto si esprime così: “Fate qualcosa! Non dimenticatevi di noi”. Come vicepresidente della Comece, ravvedo il grande pericolo insito nei governi dell’Unione Europea di pensare prima a sé stessi e di mettere al primo posto i propri interessi. E questo non porta a nulla. All’inizio gli Stati Europei hanno agito in questo modo. Oggi, per fortuna, si è capito che solo insieme, e con un progetto comune economico, politico, sociale e culturale possiamo farcela. Ricordo a questo proposito quanto papa Francesco ha scritto in una lettera all’Europa formulando un sogno e indicando un cammino di fraternità, di solidarietà, una politica che pone al centro della sua azione, la persona umana con la sua inalienabile dignità.

Si guarda con speranza ai vaccini ma la via d’uscita si prospetta lunga. Quale atteggiamento è richiesto in questi mesi di lotta e resistenza?

La priorità principale è ancora quella di superare seriamente la minaccia Coronavirus con misure di successo duraturo. Questo include anche l’equa distribuzione dei vaccini. Anche se un po’ dappertutto le vaccinazioni sono cominciate, la loro efficacia non è data per certa. Pertanto, la pandemia richiede ancora un comportamento sempre responsabile nella consapevolezza che siamo dipendenti l’uno dall’altro e sempre e ovunque.

La gente ha paura.  Non c’è quasi famiglia che non abbia subito un lutto. Quale parola vuole dire oggi agli uomini e alle donne d’Europa?

Con tutta la sofferenza che abbiamo vissuto in questo anno di pandemia, abbiamo bisogno di luoghi di conforto e di speranza. Ci siamo scontrati con la realtà ed abbiamo riconosciuto che le nostre esistenze sono fragili e limitate e che la morte fa parte della vita. Abbiamo pregato qualche giorno fa nella mia cattedrale per i morti del Coronavirus in unione con tutti i vescovi d’Europa per dare un segno di vicinanza e solidarietà. In questo tempo di Quaresima che ci accompagna alla Pasqua, vorrei ripetere le parole più che mai attuali oggi di san Giovanni Paolo II, “non abbiate paura”. Con lui, anche io oggi ripeto: traiamo speranza dalla fede e confidiamo in Dio che è più forte della morte. 

 

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