Burqa sì o no: Svizzera al crocevia. Krienke, “referendum che polarizza”

Coprirsi il volto nei luoghi pubblici è ritenuto una “minaccia” alla sicurezza. Ma, afferma il docente di filosofia alla facoltà teologica di Lugano, “questa è una proposta che non favorisce integrazione e dialogo”. Lo studioso illustra al Sir origine e obiettivi del voto popolare di domenica 7 marzo, che incrocia il tema della libertà religiosa. Il Consiglio svizzero delle religioni, di cui fa parte anche la Chiesa cattolica, ha pubblicato una “presa di posizione” decisamente contraria all’iniziativa referendaria

(Foto ANSA/SIR)

I cittadini elvetici andranno alle urne domenica 7 marzo per rispondere a tre quesiti referendari: uno riguarda la creazione di un’identità elettronica riconosciuta dalla Confederazione, uno chiede di approvare o meno l’Accordo di partenariato economico globale tra gli Stati dell’Aels (Associazione europea di libero scambio, composta da Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) e l’Indonesia. Un terzo quesito invece interpella i cittadini sull’iniziativa popolare “Sì al divieto di dissimulare il proprio viso”: se approvato, diventerebbe vietato celare il volto in tutti i luoghi pubblici e non solo, con poche eccezioni (nei luoghi di culto o per ragioni mediche o climatiche). “Il referendum si rifà a principi costituzionali della società aperta e quindi anche alla possibilità di prevenire atti criminali, giovare alla pubblica sicurezza e realizzare i valori liberali e di una società aperta”, spiega al Sir Markus Krienke (nella foto), professore di filosofia moderna e di etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano, nonché esperto del pensiero rosminiano e direttore della “cattedra Antonio Rosmini” nella facoltà ticinese. Ma la domanda, secondo Krienke, è “se ancorare una normativa del genere a livello costituzionale sia un mezzo adeguato per realizzare quelli che gli stessi sostenitori ritengono i valori di una società libera e aperta. Ritengo il referendum che introduce questa aggiunta alla Costituzione un mezzo sproporzionato per gli scopi dichiarati dell’iniziativa”, che “trasforma una istanza da vera a falsa”. Il Consiglio svizzero delle religioni, di cui fa parte anche la Chiesa cattolica, il 25 gennaio ha pubblicato una “presa di posizione” decisamente contraria all’iniziativa referendaria.

Da dove nasce l’istanza espressa nel quesito del 7 marzo?
Il referendum popolare è una iniziativa firmata da più di 100 persone di cui il Parlamento deve occuparsi. In questo caso, sono soprattutto i partiti della destra che si sono espressi favorevolmente a questa iniziativa. Il Parlamento stesso non ha fatto propria la richiesta dell’iniziativa e ha proposto un’alternativa che entrerà in vigore se il referendum sarà rifiutato. Tale alternativa prevede una precisa definizione delle situazioni in cui le forze dell’ordine possano identificare le persone chiedendo di mostrare il viso nel caso di manifestazioni o in determinati luoghi. Sono regole che esistono già, ma verrebbero ulteriormente rinforzate. Per altro in Ticino il divieto vige già in forza di un referendum del 2013 e anche nel Canton San Gallo. Un argomento contro il referendum è anche quello secondo cui regolare questa questione a livello federale è paradossalmente un’esasperazione dell’idea centralistica, mentre la Svizzera è sempre fiera del suo federalismo e delle autonomie dei cantoni.

Sicurezza pubblica e regole religiose confliggono in diversi luoghi ormai in Europa: il confine non è più tracciato?
Siamo in un momento, in tutta Europa (si potrebbero citare esempi da Danimarca, Francia, Germania), in cui si discute a livello pubblico di come vogliamo ripensare e ridefinire il confine tra libertà religiosa e sicurezza. Credo sia un processo legittimo in società libere, ma anche obbligato, alla luce delle vicende dell’ultimo decennio in cui l’Europa è stata spesso terreno di attacchi da parte di estremismi e fondamentalismi religiosi di matrice culturale diversa da quella cristiana. La Germania per esempio ha rivisto le regole per le moschee, è stata introdotta una teologia islamica nelle università, limitate le possibilità di finanziamenti a imam e comunità islamiche da Stati stranieri. È bene che si pensi quali sono i metodi migliori con cui vogliamo impedire radicalizzazioni religiose in chiave fondamentalistica che vanno contro i principi della nostra società libera oltre che polarizzare le nostre società. La domanda però è in quale modo.

A pagarne le spese però non è spesso la libertà religiosa?
In Europa alla libertà religiosa è dato un grande valore: vale per la Corte europea dei diritti umani o, per quel che vedo nelle mie competenze, per la Corte costituzionale tedesca. Questo non significa che non si verifichino conflitti o che regolamenti introdotti dagli Stati possano andare a discapito della libertà religiosa. Il difficile rapporto libertà religiosa e sicurezza pubblica è in continua evoluzione e quindi anche il dibattito sull’adeguatezza delle regole è legittimo.  Anche nella Chiesa si dovrebbe tematizzare di più e più liberamente come vogliamo pensare il rapporto tra Chiesa, Europa e altre religioni. Con l’Illuminismo, in maniera anche dolorosa per la Chiesa, abbiamo trovato una sintesi con il liberalismo moderno. Nel XX secolo siamo passati dal completo rifiuto della legittimità di altre religioni, alla tolleranza, al riconoscimento positivo nel Vaticano II, fino alla fratellanza universale di Papa Francesco. Quindi ora credo si dovrebbe iniziare un dibattito su quale sia questo rapporto: fin qui ci si è limitati a dire che dobbiamo aprirci alle altre religioni e che il cristianesimo ha un futuro anche fuori dall’Europa. Ma ci siamo lasciati alle spalle un dibattito culturale importante per la stessa Europa.

Nel mirino di fatto sono burqa e niqab: che valutazione dà lei?
Io penso che non siano conciliabili con la nostra cultura per diversi motivi: non è solo un simbolo religioso, è anche politico e sociale. Esprime un’idea di società, di rapporto uomo-donna che noi non condividiamo e soprattutto limita e rende difficile l’integrazione delle donne nella nostra società (una donna con il burqa fatica a trovare lavoro). La nostra cultura è una cultura del viso e del volto, anche nella tradizione cristiana. Quindi non penso il burqa possa far parte della nostra cultura; ciononostante ritengo esagerato ancorare un tale principio nella Costituzione. Considerando anche che stiamo parlando di 30 casi in Svizzera.

Se vinceranno i sì, come i sondaggi oggi fanno pensare, ci saranno ricadute nelle relazioni sociali e anche interreligiose?
Oltre alle conseguenze meramente politiche e giuridiche, ci sarebbe anche una conseguenza simbolica: diventerebbe chiaro che la Svizzera, oltre a voler risolvere un’esigenza sociale che non esiste, vuole istituire un simbolo. La decisione sarebbe un ulteriore fattore che renderebbe più difficile il discorso dell’integrazione. Non per il divieto del burqa in sé ma per la sua portata simbolica. È proprio la proposta del quesito a generare polarizzazione. È giusto il dibattito su integrazione, islam, fondamentalismo religioso, ma ridurlo al problema del burqa ha un effetto divisivo. È una proposta che non favorisce integrazione e dialogo. Tanto più che la Costituzione non dovrebbe essere il luogo in cui si affrontano questioni che dividono: nella Costituzione dovremmo fissare principi e regole fondamentali che ci uniscono.

 

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