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“In Limbo”, il costo umano della Brexit. Le voci di chi paga il prezzo del divorzio del Regno Unito dall’Ue

Mentre Covid e rallentamento economico pesano sull'isola, e il governo fatica a trovare vere risposte ai problemi del Paese, un gruppo di cittadini britannici ed europei, guidati dall'italiana Elena Remigi, denuncia i mali generati a partire dal referendum del 2016. Si tratta del progetto "In Limbo", che, a partire da Facebook, ha generato due volumi di estremo interesse. "I cittadini sono diventati merce di scambio per il governo, e si sono trovati in un limbo profondo", denuncia Remigi. "Il nostro intento era duplice: da una parte unire le testimonianze in una voce collettiva, capace di raggiungere sia i politici che il pubblico inglese, e dall’altra far sì che le nostre voci potessero restare come memoria storica di un periodo travagliato della storia inglese"

Elena Remigi al Parlamento europeo. Sotto, le copertine dei volumi

Si chiama “In Limbo”. È un progetto, dal quale è scaturita una coppia di libri molto interessanti. Danno voce agli italiani nel Regno Unito e ai britannici che vivono da questa parte della Manica. Storie quotidiane, di persone la cui vita si è drammaticamente complicata con la decisione del Regno Unito, con il referendum del giugno 2016, di lasciare l’Ue. Il Sir ne parla con Elena Remigi, ispiratrice del progetto e curatrice dei volumi: nata a Milano nel 1968, ha vissuto e studiato a Pavia, in Canada, Irlanda, e nel Regno Unito, dove vive da 15 anni con marito e figlio 24enne. Elena è interprete, traduttrice e docente di lingue straniere.

Come e quando nasce il progetto “In Limbo”?
Il progetto (https://www.inlimboproject.org/) nasce a marzo del 2017, nei mesi successivi al referendum sulla Brexit, con l’intento di dare voce ai cittadini europei residenti nel Regno Unito. Durante la campagna referendaria, alcuni fautori del Vote Leave, come Boris Johnson, avevano messo per iscritto che nulla sarebbe cambiato per i cittadini europei dopo il voto. Tale promessa, purtroppo, è stata subito dopo disattesa. Non solo. I cittadini europei sono diventati “merce di scambio” per il governo, e si sono trovati in un limbo profondo. Quando molti di noi hanno incominciato a condividere i propri sentimenti di tristezza, di preoccupazione, oppure di tradimento sui social media, ho pensato che sarebbe stato importante non disperdere queste voci, raccogliendole in un libro. L’intento era duplice: da una parte unire le testimonianze in una voce collettiva, capace di raggiungere sia i politici che il pubblico inglese, e dall’altra far sì che le nostre voci potessero restare come memoria storica collettiva di un periodo travagliato della storia inglese. Sono infatti convinta che con i libri si vincono molte battaglie.

Poi cosa è successo?
A questo scopo ho aperto un gruppo Facebook e in due anni abbiamo pubblicato ​In Limbo​, che tratta dei cittadini europei residenti nel Regno Unito, e ​In Limbo Too​, con voci di cittadini britannici residenti in Ue.​ Abbiamo inviato questi due libri a oltre 1.800 tra politici e figure influenti provenienti da entrambi i lati della Manica​ e i​n questo modo abbiamo incominciato a far sentire la nostra voce attraverso i media di tutto il mondo, parlando nelle università e nelle piazze, piuttosto che al Senato francese o al Parlamento europeo. Recentemente i libri sono stati pubblicati dalla Bertrand Russell Peace Foundation e, nel caso di In Limbo, abbiamo ampliato il primo volume con un intero capitolo dedicato al Settled Status, il documento che i cittadini europei devono ottenere per potere restare nel Regno Unito. Abbiamo ricevuto molti riscontri positivi di persone – politici inclusi – che hanno capito più in profondità l’impatto umano della Brexit e il nostro limbo psicologico e pratico.

Un libro, una vicenda collettiva, che parla del disagio di tantissime persone…
L​’idea fondante di In Limbo è proprio quella di raccontare il lato umano, il costo umano della Brexit, aspetto questo completamente trascurato durante la campagna referendaria, anche da parte del Remain, ossia da chi voleva restare in Europa, che si è occupata quasi esclusivamente dei risvolti economici. Di fronte a un clima e a un linguaggio talvolta disumanizzante nei nostri confronti, lo scopo di In Limbo è quello far capire attraverso le varie testimonianze che l’“altro” non è un numero o una statistica, ma una persona come noi. Il gruppo poi è diventato “un’oasi di fraternità” per citare il sociologo francese Edgar Morin, un luogo dove scambiare idee, chiedere aiuto, oppure offrire sostegno e amicizia a chi si sente solo. I nostri volontari indirizzano i cittadini verso organizzazioni in grado di dare aiuto legale o psicologico. In piena emergenza Covid, abbiamo deciso di moltiplicare i gesti di solidarietà, continuando ad ascoltare le persone in maggiore difficoltà, in particolare chi ha perso il lavoro e si è ritrovato senza aiuto economico visto che chi non ha il Settled Status pieno, ad esempio, non può ottenere alcun sussidio. È una goccia nel mare, ma ogni goccia conta.

Nel suo volume si dà voce a persone a vario titolo “toccate” dall’esito del referendum del 2016 e dall’uscita, ormai imminente, del Regno Unito dall’Unione europea. A quali nazionalità appartengono queste persone? Per quali motivi sono sull’isola?
Le testimonianze raccolte provengono da cittadini di tutti gli Stati dell’Unione europea – il nostro gruppo infatti è una specie di mini-Europa – ma abbiamo anche cittadini non europei sposati a europei e, naturalmente, britannici. Le persone appartengono ai ceti sociali più disparati, perché tutti sono stati “toccati” dal risultato del referendum. Ci sono accademici, scienziati, professionisti, casalinghe, disoccupati, studenti, impiegati, assistenti sanitari… In Limbo raccoglie storie molto diverse, anche se c’è una prevalenza di voci femminili, perché soprattutto chi aveva deciso di lavorare a casa, e sono quasi sempre donne, sta avendo più difficoltà a dimostrare la propria permanenza nel Regno Unito e quindi ad ottenere i documenti necessari. Molti cittadini si sono trasferiti nel Regno Unito per studiare o trovare un lavoro, ma vi sono anche i discendenti degli immigrati che sono arrivati ​nel dopoguerra, tra cui naturalmente molti italiani. I loro genitori, oggi novantenni, hanno improvvisamente scoperto di dover fare domanda per restare a casa propria e non è stato facile per molti di loro​ accettare di​ sentirsi ospiti dopo che, negli anni ‘50, erano partiti per il Regno Unito sotto invito del governo di Sua Maestà.

Quali i problemi o i timori più ricorrenti sollevati da questi europei che risiedono, lavorano, vivono nel Regno Unito?
Il Settled Status ha posto molti problemi di ordine pratico. Innanzitutto va premesso che si tratta di una vera e propria richiesta, non di una registrazione automatica. Tra i problemi più comuni c’è quello della mancanza di un documento fisico da mostrare agli affittuari, per richiedere un mutuo, oppure da presentare a un colloquio di lavoro. Anche se siamo ancora nel periodo di transizione, ad alcuni cittadini è già stato chiesto di dimostrare il diritto a restare nel Regno Unito. Per citare qualche esempio, una giovane donna, che aveva appena scoperto di avere un tumore, si è sentita chiedere dall’ospedale di provare il diritto alle cure mediche gratuite. A un cittadino danese che volava verso Londra da un aeroporto italiano, è stato chiesto di esibire un documento che dimostrasse di poter rientrare nel Regno Unito. Peccato che il Settled Status sia solo digitale! Molti anziani poi stanno faticando a fare domanda per ottenerlo.

A suo avviso quali saranno le principali ricadute sulla vita di ogni giorno per gli “stranieri” presenti nel Paese a partire dai prossimi mesi?
Faccio solo un esempio dovremo dimostrare di essere legalmente residenti ogni volta che ci rechiamo in un ospedale, vogliamo aprire un mutuo, oppure cerchiamo un lavoro. E con un sistema solo digitale non sarà semplice. 

Europa sì, Europa no: alla luce delle storie raccolte con il progetto, conviene una “exit” oppure no?
Il progetto ha dimostrato chiaramente che quando i diritti degli individui vengono intaccati, le ricadute possono essere pesanti. Quando i nostri diritti sono rimasti in sospeso per più di due anni, quando Theresa May ha detto che “se sei un cittadino del mondo, sei un cittadino di nowhere​​, di nessun luogo”, molti di noi hanno capito che esiste un’identità europea che va difesa strenuamente, e hanno apprezzato il dono della libertà di circolazione delle persone, che ci permette di vivere, lavorare, studiare e circolare in 27 Paesi senza difficoltà. Un professore a Bruxelles ha definito il nostro libro “il primo esempio di cos’è la cittadinanza europea in pratica”. In tempi di Covid e di barriere tra regioni o Stati per motivi certamente diversi, credo che questa libertà sia ancora più compresa. Le nuove generazioni di britannici che hanno perso questo diritto, si ritrovano con meno opportunità rispetto ai propri genitori. Tutto questo è molto triste ed è una grave perdita. Ian Dunt, un noto giornalista e scrittore inglese che ha scritto l’introduzione alla seconda edizione di In Limbo, diceva che “la Brexit ci ha chiesto di scegliere tra le nostre identità”. Fino a ieri potevo sentirmi italiana, inglese, ed europea, senza alcuna contraddizione, mentre è come se la Brexit ci abbia chiesto di sceglierne una sola. Insomma, al di là dei risvolti economici, al di là dei rischi che la Brexit creerà alla tenuta del Regno Unito che ci appare sempre più disunito e che mette a rischio la pace in Irlanda, siamo diventati tutti più poveri dentro.

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