Brexit, perchè ora tutti rischiano di farsi male?

Sono tali e tante le complessità da far ritenere che gli undici mesi di transizione non basteranno per sottoscrivere entro l'anno nuovi accordi di vicinato con l’area continentale. Anche perché, come in ogni negoziato, le posizioni iniziali sono molto distanti e dalle due parti non si esclude la “hard Brexit”, cioè l’uscita del Regno Unito senza accordi e quindi con il massimo del danno

Se volete avere un’idea di cosa vuol dire uscire da un accordo comune come l’Unione europea, seguite l’evoluzione dei prossimi mesi dell’unica rottura formalizzata. Non Grexit come si era temuto, non Italexit, che non è mai stata un’ipotesi praticabile. È invece quella Brexit che ha sorpreso tutti (probabilmente gli stessi organizzatori del referendum del 23 giugno 2016) ed è ora operativa dall’inizio di febbraio dopo tre anni e mezzo di tentativi di accordo, tensioni politiche nell’isola, caduta di due premier e tanti dubbi.

Sono tali e tante le complessità da far ritenere che gli undici mesi di transizione non basteranno per sottoscrivere entro l’anno nuovi accordi di vicinato con l’area continentale. Anche perché, come in ogni negoziato, le posizioni iniziali sono molto distanti e dalle due parti non si esclude la “hard Brexit”, cioè l’uscita del Regno Unito senza accordi e quindi con il massimo del danno.

Il “Liberi tutti” potrebbe diventare “Perdono tutti”. Non solo in economia.

Le persone innanzitutto. Perdono capacità di studio e lavoro gli europei continentali che dovranno rispettare delle nuove norme. La pratica internazionale delle esperienze Erasmus, che abitua i giovani alle culture più diverse, viene frenata. Senza nuovi accordi, il programma di interscambio fra studenti potrebbe essere limitato nel Regno Unito che era fra i preferiti per apprendere l’indispensabile inglese. Si prevede che almeno in questo caso gli scambi possano restare praticabili e il “Britain first” possa essere accantonato vista la scarsa incidenza politica ed economica.

Londra, ma non solo, è stata fin dagli anni ’60 l’approdo di lavoratori europei. La Brexit spinge a rallentare il flusso e indica la necessità di avere un contratto da almeno 30mila sterline quando lo stipendio medio britannico è di 35mila. Poco per lavoratori di fascia alta, meno accessibile per chi deve insediarsi e migliorare. Si intravede un primo effetto economico e un freno sui flussi di lavoratori stranieri, molto utili anche in Gran Bretagna, basti pensare agli ospedali.

Perdono i comportamenti solidali: dalla difesa comune alle leggi uniformi, ai criteri standard. Avere, pur con tutti i limiti, un Parlamento comune favoriva coesioni e anche mediazioni su temi delicatissimi. Londra e Bruxelles sono molto più lontane.

Per l’economia – capitolo altrettanto delicato – Ue significava (non sempre) regole standard e una giustizia comune in caso di contenziosi su concorrenza o altro. “Ripristineremo la piena sovranità sulle frontiere, sull’immigrazione, sulla concorrenza, sui sussidi, sugli appalti e sulla protezione dei dati”, ha detto il premier britannico Boris Johnson che intende svincolarsi da leggi comunitarie, direttive, Corti di giustizia e simili.

Da un punto di vista economico si innesta una concorrenza pericolosa: ci sono le dogane fisiche a scoraggiare le merci provenienti dalla Ue (per avere un’idea nell’agroalimentare il Regno Unito compra per 40 miliardi l’anno, circa 3,4 miliardi la parte italiana) ma ci sono anche le regole che, applicate in modo scorretto, fanno da dogana. Allontanando le merci europee e aprendo la strada alle produzioni di altri continenti più amici. Londra può attrarre imprese abbassando i controlli di tutela e qualità, allentando la fiscalità, accettando flussi meno controllabili. Non a caso si parla di un possibile involuzione inglese a “Paese offshore”, quei rifugi che coprono pratiche e flussi di minor trasparenza. L’Europa teme la concorrenza totale e chiede nell’avvio di trattative un “level playing field”, ossia un “terreno di gioco” con condizioni paritarie, per evitare che Londra si lanci in una deregulation totale. Bisogna ricordare che la Borsa di Londra detiene il controllo della Borsa di Milano e si comincia a riflettere se la proprietà “Uk” sia coerente con il post Brexit.

La storica piazza londinese potrebbe, abbassando la guardia, strappare aziende quotate alle Borse europee cercando di favorire l’insediamento, il lavoro e il pagamento delle tasse nell’isola.

Londra però rischia quanto l’Europa. La Scozia vuole il referendum sull’autonomia, Galles e Irlanda del Nord si stanno muovendo. Assetti interni sono entrati in fibrillazione, non era quello che immaginava il premier David Cameron organizzando il referendum diventato un boomerang.

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