
“Una lampada che illumini chi vive nelle tenebre, che porti la speranza a chi è limitato della propria libertà personale e a tutta la nostra comunità, affinché sia libera dai giudizi e dalle condanne”. Con queste parole mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e delegato dei vescovi del Triveneto per la pastorale dei detenuti, ha accompagnato l’accensione delle lampade della speranza al termine della messa celebrata il 29 gennaio scorso nella cappella della Casa circondariale maschile “Santa Maria Maggiore” di Venezia. Presenti il direttore del carcere Enrico Farina, i cappellani delle 17 strutture detentive del Triveneto insieme a religiosi, religiose e volontari che collaborano con loro, oltre ad una rappresentanza di detenuti nelle prime file. La lampada in cui arde la “luce di speranza” è stata accesa a Roma nei giorni scorsi durante l’incontro dei referenti regionali dei cappellani quale segno del Giubileo, e verrà portata in ogni struttura carceraria del Triveneto.

Foto Patriarcato Venezia/SIR
La parabola evangelica del seminatore, ha osservato l’arcivescovo Redaelli durante l’omelia, “ci insegna che la parola di Dio viene offerta a tutti”. Al tempo stesso, ha aggiunto, “siamo noi anche la parola di Dio”; per questo “dobbiamo essere accoglienza e parola per l’altro” ricordandoci che
“il messaggio di Dio è sempre di speranza, ed è sia dono che responsabilità perché ci deve spronare ad agire”.
A concelebrare con il presule il cappellano di Santa Maria Maggiore, don Massimo Cadamuro.
Un segno di speranza. “Così come la luce santa accesa oggi a Santa Maria Maggiore verrà portata come segno di speranza in tutte le carceri del Triveneto – ha spiegato il direttore della struttura detentiva, Enrico Farina –, anche l’impegno quotidiano di volontari, educatori e polizia penitenziaria continua ad ampliare le opportunità di reinserimento per i detenuti ristretti a Santa Maria Maggiore, ma anche di tutto il Triveneto. La crescente richiesta di figure specializzate nei settori dell’edilizia, della nautica, della ristorazione, dell’archivistica digitale e dei servizi offre prospettive non solo per questa casa circondariale, ma per tutto il Triveneto”. Un segnale concreto. ha concluso, “di come
il mondo del lavoro sia sempre più aperto a percorsi di inclusione, valorizzando competenze e professionalità che possono diventare un ponte verso una nuova vita”.
Foto Patriarcato Venezia/SIR
A raccontare la giornata al Sir è don Paolo Bellìo, da qualche mese cappellano nel carcere femminile della Giudecca, presente all’incontro. “Abbiamo voluto questa celebrazione a Santa Maria Maggiore anzitutto per ricordare don Antonio Biancotto, parroco a cappellano dei due istituti di pena, maschile e femminile, scomparso lo scorso 4 giugno, e poi per compiere il gesto simbolico dell’accensione delle lampade per mettere sotto la luce della speranza giubilare le celebrazioni, gli incontri, la vita quotidiana in ogni carcere”.
Come parlare di speranza e come portarla concretamente dietro le sbarre? “In base alla mia esperienza rafforzando relazioni buone e feconde, che aiutino le detenute a riconoscere che il tempo vissuto in carcere può diventare favorevole per riappropriarsi di sé stesse sia rispetto alla colpa – e questo implica un lavoro lento ma indispensabili di riconoscimento e consapevolezza della propria responsabilità -, sia rispetto alla possibilità di riscatto, di risollevarsi, di ritrovare in sé le risorse per guardare al futuro”. Le detenute, prosegue il cappellano, “nutrono molte attese.
In carcere la parola speranza ha una risonanza potente, molto più forte rispetto all’esterno,
e si traduce nella possibilità che il magistrato conceda gli arresti domiciliari, oppure che nel corso dell’anno giubilare lo Stato conceda un’amnistia o un indulto”.
Ma per don Bellìo, speranza è anche “dare un senso al tempo che queste donne trascorrono in carcere, poter coltivare il desiderio di riscatto, la volontà di cambiare, la prospettiva di poter uscire e di
guardare di nuovo i propri figli a testa alta
con la consapevolezza di avere, sì, sbagliato ma anche di poter ritornare a fare le mamme e le mogli; di costruirsi, insomma, una vita migliore. Molte di loro sono al tempo stesso colpevoli e vittime perché vengono da storie di vita difficili e spesso si trovano lì a pagare anche per altri, magari per un atto compiuto ingenuamente o per una firma messa in modo inconsapevole per chi si è servito di loro. Questo scatena sentimenti di rabbia e di ingiustizia ma, se accompagnate e sostenute, instilla
una speranza di redenzione e la consapevolezza che questo processo deve partire da loro stesse”.
Al femminile della Giudecca, le “ospiti” sono un centinaio, tra loro tre mamme con tre bambini, l’ultimo nato ai primi dello scorso dicembre. “Non c’è sovraffollamento, ma siamo al completo”, dice il cappellano. E “il difficile – assicura – non è chiudere le porte del carcere, ma riaprirle quando un detenuto a fine pena si riaffaccia sul mondo. Molte volte non è ancora pronto a gestire la libertà ritrovata, oppure non sa dove andare a dormire e non ha alcun mezzo di sostentamento”.

Foto Patriarcato Venezia/SIR
Una casa e un lavoro. All’incontro dei referenti regionali a Roma è stato chiesto loro di fare una mappatura delle strutture pronte ad accogliere i detenuti a fine pena e delle realtà disponibili a dare loro un lavoro. A Venezia, spiega don Bellìo, la direzione del carcere femminile è in contatto con il direttore della Caritas diocesana per una convenzione che riservi nella cittadella della carità ricavata dall’ex ospizio delle Muneghette quattro/cinque stanze per ospitare per un certo periodo di tempo donne in semilibertà o appena uscite dal carcere. Sono attive anche sinergie con cooperative, aziende, alberghi e ristoranti disponibili ad offrire lavoro. “Dalla mappatura degli interlocutori pronti ad assumere emerge che, come ha rilevato il direttore Farina,
le offerte di lavoro sono più numerose dei detenuti nelle condizioni di coprirle.
Questo significa – sottolinea il cappellano – che da parte del mondo esterno non c’è solo rifiuto o chiusura, ma un’attenzione e un’apertura all’accoglienza e all’inclusione che è un grande segno di speranza”.
Come è stata accolta dalle detenute l’apertura della porta Santa Rebibbia? “L’hanno seguita in Tv. Per loro, Giubileo significa speranza in uno sconto di pena. Il segnale del Papa è stato forte ma ho dovuto spiegare loro – rivela sorridendo il sacerdote – che non è il Pontefice a concedere l’indulto; sperano allora che per l’occasione lo Stato italiano compia questo gesto di clemenza”. E in molte ricordano la visita di Francesco, lo scorso 28 aprile, e l’esperienza del Padiglione della Biennale della Santa Sede, visitato in un anno da 25mila persone che hanno attraversato il cortile accompagnate da alcune di loro in qualità di guide. “Rivendicano con orgoglio – conclude il cappellano – di aver avuto anche loro il Papa in carcere”.