Domenica 28 aprile – V di Pasqua

Gv 15,1-8

Anche nella V domenica di Pasqua B il Vangelo è tratto dall’evangelista Giovanni, e nuovamente contiene una celebre metafora nella forma caratteristica dell’ègo èimi + predicato (“Io sono la vite vera”, 15,1; “Io sono la vite”, 15,5). Siamo all’interno dei cosiddetti discorsi di addio (Gv 14-17), una lunga serie di parole di Gesù alla cerchia più intima dei suoi discepoli che vengono collocate alla vigilia degli eventi della Passione e fungono da testamento spirituale del maestro, il quale si preoccupa di preparare i suoi ad affrontare gli atti ostili del “mondo” (in Giovanni una realtà a tratti respingente – cfr., ad esempio, 14,17.29; 15,19 -, ma anche destinataria della salvezza – cfr. 12,47, 17,21) e a superare il rischio di dispersione che il “gregge” (per restare sull’immagine centrale della IV  domenica di Pasqua) correrà nell’ “ora” in cui il pastore sarà strappato via (cfr. 13,19; 14,29), promettendo la propria permanente presenza attraverso il dono dello Spirito Paràclito (cfr. 14,16; 16,7 etc.).

In questo contesto, Gesù propone diverse chiavi di lettura della propria missione nel mondo, tra cui quella della vite (àmpelos). Il lettore attento ricorderà che quella della “vigna” è un’immagine-chiave non solo della letteratura biblica, ma anche dell’iconografia cristiana, persino antichissima: curata, amata e insieme maledetta da Dio quando non dà frutti (cfr. Is 5,2-6; 27,2-4), essa rappresenta l’amato ma infedele popolo di Israele. Gesù, qui, è la vite “vera”, cioè autentica. Il suo agricoltore è Dio Padre che taglia e pota, selezionando tra ciò che è secco e non può più dare frutto e ciò che, già fruttifero, può diventare più fruttuoso. La traduzione corrente in italiano non permette di cogliere il legame lessicale in greco tra il verbo “potare” (kathàiro, Gv 15,2) e l’aggettivo nel versetto seguente katharòi, che viene tradotto con “puri” (“Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato”, 15,3), ma il senso dell’aggettivo è “mondati”: i discepoli, cioè, hanno già ricevuto le cure del provvido agricoltore divino attraverso l’insegnamento di Gesù.

Oltre all’immagine della vite, nel passaggio selezionato è proposto insistentemente il verbo “rimanere” (mènein), che ricorre qui ben sei volte. È questo l’imperativo di Gesù: “Rimanete in me e io in voi” (v.4). Questo rimanere fa e farà la differenza tra i rami infruttuosi e quelli che producono uva: l’essere ben innestato nella pianta può far sì che la linfa vitale scorra dalla pianta fino alle estremità dei rami, fin nei frutti. Il ramo da solo non fa niente: “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”.  Del resto, Gesù stesso ha detto di sé: “non faccio nulla da me stesso” (Gv 8,28). Se è necessario invitare a questo rimanere, ciò significa che i discepoli non possono considerarsi in una condizione permanente e immodificabile. L’esortazione ricorda che la vita del discepolo è un continuo processo di scelta a rimanere, non un possesso definitivo, che si può attuare a patto che resti stabile il legame con le parole del Figlio, lui che solo può raccontare/rivelare al mondo il volto invisibile di Dio Padre (Gv 1,18).

La chiave di volta del discorso è la reciprocità, in un intreccio tipico del linguaggio giovanneo, “voi in me… io in voi”: quante volte e con quante sfumature il Gesù giovanneo lo ripete! Così la prospettiva cristologica della vite e quella ecclesiologica dei tralci si legano indissolubilmente. La vigna amata di Isaia ha ora al centro la vite prediletta dal Padre, il Figlio, in cui ogni discepolo, ramo già innestato, è invitato a restare e a portare frutto.