Domenica 5 novembre

Il brano di questa settimana si colloca dopo una sequenza di conflitti e polemiche, alcune delle quali sfociate in confronti accesi, che Gesù ha dovuto affrontare con gli scribi e i farisei. Questi cercavano con astuzia di mettere il Signore in difficoltà, anche nel campo dell’interpretazione della Legge. Tuttavia, nella pericope odierna, Gesù si rivolge non direttamente agli scribi e ai farisei, ma piuttosto alla folla e ai suoi discepoli, proprio con l’intento di metterli in guardia contro i comportamenti errati perpetrati dai pastori del popolo.

È opportuno far notare che al tempo di Gesù, le autorità religiose e civili erano spesso sovrapponibili. Pertanto, la sua critica non si limita a una categoria specifica ma si estende a ogni forma di autorità (sia essa politico, religiosa, sindacale, culturale, professionale o familiare) che, invece di servire, si tramuta in potere e privilegio. Ciascuno di noi, in varie modalità, detiene una certa forma di autorità. Nessuno è immune dalla tentazione di desiderare di essere servito invece che servire, e dalla sottile insidia di cercare riconoscimento, di primeggiare, di farsi chiamare “maestri” e di vantare titoli di varia natura.

Pertanto, nessuno può eludere l’urgente richiamo di Gesù a esaminare la propria vita. Siamo chiamati a una profonda e pressante conversione comunitaria. Le parole di Gesù alla folla delineano un modello autentico per la comunità cristiana e sottolineano la “differenza cristiana” e la novità del messaggio che viene proclamato. Il Signore invita le folle che lo ascoltano a non venerare in modo idolatrico le guide e a resistere all’ambizione e al desiderio di riconoscimento mondano.

Il fondamento della comunità cristiana, al contrario, risiede nell’adesione comune e costante al “Padre celeste unico” e a Lui come la vera guida che conduce al Padre. Gesù sembra suggerire che solo ancorandosi saldamente a queste radici la comunità potrà costituirsi come un corpo di individui che si riconoscono fratelli, poiché figli dello stesso Padre.

L’ipocrisia e la dissonanza tra le parole e le azioni non possono mai giustificare l’insubordinazione a Dio e ai suoi precetti. Infatti, chi tra noi può sinceramente affermare di vivere una perfetta corrispondenza tra la fede professata e quella vissuta nella realtà quotidiana? Gesù sembra invitare ognuno di noi, da una parte, a discernere tra l’ineffabile perfezione della verità divina e le imperfezioni delle nostre opere umane e, dall’altra, a sottoporre l’atto di amare il prossimo a un amore ancora più profondo e prioritario verso Dio.

In altre parole, la supremazia conferita al comandamento di amare Dio con tutto il nostro essere configura il mandato che ispira le opere di misericordia verso i nostri fratelli e le nostre sorelle. Queste azioni non hanno lo scopo di accrescere la nostra gloria personale, ma piuttosto di rivelare la gloria di Dio, il quale, a motivo del suo immenso amore per noi, non ha esitato a sacrificare il suo Figlio per il riscatto dei nostri peccati e per concederci l’adozione a figli.

L’amore divino determina la grandezza a cui dovremmo aspirare, e questa grandezza non consiste affatto nelle effimere lodi e riconoscimenti che il mondo umano concede. Non esiste titolo più sublime dell’essere riconosciuti come figli dal Padre nostro celeste. Questa adozione non è il risultato di meriti accumulati, ma dipende dalla misura in cui abbandoniamo ogni forma di presunzione e autosufficienza, per rivestirci invece di sentimenti di umiltà, riconoscendo l’uguale dignità di ciascun essere umano.

Di fatti, proprio negli ultimi versetti viene data la chiave interpretativa di tutto il brano: l’ascolto autentico della Parola divina e la sua messa in pratica devono essere ispirati dall’esempio di Gesù stesso. Egli, pur essendo il primo, sceglie di umiliarsi “per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”, come affermato in Marco 10, 43-45. La diakonìa, il servizio, rappresenta l’unica “autorità” a cui coloro che svolgono un ministero nella Chiesa dovrebbero aspirare.