Domenica 15 maggio – V di Pasqua (bis)

Le letture di questa domenica convergono tutte sui pochi versetti del Vangelo che ci vengono proposti, intendono gettare luce e condurre alla comprensione e all’accettazione di quanto stava accadendo.

Indubbiamente incalza un termine che si ripercuote martellando: “nuovo”.

Lasciato al suo primo risuonare “nuovo” potrebbe condurre nella direzione errata, vale a dire nuovo scalza vecchio, l’usato da buttare perché viene sostituito.

Questo pensiero, o anche la sola prima reazione immediata, sarebbe una cartina di tornasole chiarissima: non si è capito nulla di quanto nel cenacolo Gesù ha concretamente fatto.

Il “si” lo riferisco indubbiamente al possibile fraintendimento dei discepoli ma anche ai discepoli odierni che siamo noi.

Il nuovo quindi come interpretarlo, come farlo diventare parte del nostro vivere personale e relazionale?

Alla luce della lavanda dei piedi che ha scardinato -l’abbiano compreso allora immediatamente o abbiano avuto bisogno di tempo per farlo- tutta la mentalità sottesa all’organizzazione del popolo di Israele ma anche del nostro popolo odierno.

Gesù richiama i suoi a considerare quanto ha operato, quanto ha fatto, quindi non li ha affidati ad una vaga memoria sentimentale ma a quella che è stata la sua esistenza concreta, fattiva.

Che cosa ha fatto? Si è fatto servo, ha accettato su di sé non un ruolo ma un servizio, un compito assegnatoGli dal Padre: chinarsi a lavare i piedi dei discepoli, cingersi con un grembiule come il più umile degli schiavi.

Il nuovo quindi non scalza quanto donato nel Primo Testamento, in Levitico (19,18), il libro della santità, infatti è scritto: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”.

La novità quindi contiene in sé questa radice, questo germe che il Signore ha lasciato fiorire in sé fino a rovesciare ogni categoria sociologica di pregio.

Si è fatto portatore di un amore concreto e concretizzato in quel grembiule che, via via, mentre lavava i piedi, diventava sempre più sporco.

Il richiamo quindi a farsi riconoscere non passa per atteggiamenti di accoglienza vuoti e sradicati dalla realtà ma rimanda a Lui stesso: servo.

Diventa il sigillo, ineludibile ed incancellabile, per potersi dire personalmente “Sono discepolo di Gesù Cristo” e così, simultaneamente, farsi riconoscere da tutti.

Non per un distintivo, non per un fiocco o un fiocchetto esibito, ma per una postura fatta propria, quella di Lui che, Figlio e Signore, si è dimostrato l’ultimo degli schiavi.

L’amore allora transiterà nel quotidiano e si incarnerà in gesti di aiuto, di attenzione, di soccorso reale che non solo richiederanno fatica e dedizione ma annunceranno che, in quel preciso contesto, agisce un discepolo, con i discepoli amici indubbiamente ma tutti insieme e solidali agiranno: solo allora avverrà il riconoscimento reale ed indiscutibile.

Non ammantato di esibizione, di prestigio ma di un processo alchemico di grazia che muta il mal odore del povero, del dolore, dell’afflizione, nel buon odore del servo: Gesù Cristo.

Ecco il “nuovo”.