Giubileo dei migranti. Sacerdote italiano al servizio della Chiesa belga: “migrare non significa solo lasciare la propria patria, ma trasformarla in un ponte”

Da un quartiere della periferia di Taranto a sacerdote oggi in Belgio. Si tratta di don Gianluca Loperfido, ordinato il 15 agosto di due anni fa nella parrocchia San Martino di Genk. Don Gianluca oggi è vice parroco in due unità pastorali che comprendono dieci parrocchie: “un compito impegnativo che richiede tanta energia e mobilità", dice in questa intervista al SIR alla vigilia del Giubileo dei migranti: "sarò sempre un migrante, perché questa è la mia storia e la mia scelta"

Da un quartiere della periferia di Taranto a sacerdote oggi in Belgio. Si tratta di don Gianluca Loperfido, ordinato il 15 agosto di due anni fa nella parrocchia San Martino di Genk.
Don Gianluca oggi è vice parroco in due unità pastorali che comprendono dieci parrocchie: “un compito impegnativo che richiede tanta energia e mobilità”, dice in questa intervista al SIR alla vigilia del Giubileo dei Migranti. Un giubileo che rappresenta un’occasione “preziosa per ricordare che agli occhi di Dio siamo tutti uguali: figli amati, senza distinzioni, tutti pellegrini di speranza, chiamati a diventare segni concreti di amore”. E da sacerdote in Belgio don Loperfido si sente “in parte” ancora emigrato e – dice – “lo sarò sempre, perché questa è la mia storia e la mia scelta. Non lo vivo come un limite, ma come una ricchezza. Certo, l’integrazione è stata fondamentale. Porto dentro di me le radici italiane e meridionali, e cerco di condividerle. Per me – aggiunge – emigrare non significa solo lasciare la propria patria, ma trasformarla in un ponte: tra culture, tra persone, tra esperienze di fede”.

Foto don Loperfido

Don Gianluca ha vissuto la sua infanzia insieme a due fratelli gemelli a Taranto: “la nostra seconda casa era la parrocchia di San Francesco de Geronimo, dove ci sentivamo parte di una comunità viva. Il parroco si prendeva cura dei poveri, dei tossicodipendenti, degli immigrati e io lo accompagnavo spesso. Quelle esperienze hanno segnato profondamente il mio cuore. Nel volto delle persone emarginate ho imparato a riconoscere quello del Signore”. Quindici anni fa, dopo il diploma, si trasferisce in Belgio, una realtà “a me conosciuta proprio perché ogni anno dopo la scuola trascorrevo le vacanze estive dalla nonna a Winterslag”. Qui, quartiere periferico di Genk, più di 60 anni fa si trasferì il nonno per lavorare nella miniera di carbone.
“Io, racconta, ho trovato lavoro come chef in alcuni ristoranti italiani del Limburgo. La cucina mi ha insegnato la disciplina e la fatica, ma dentro di me cresceva una domanda di senso. Ricordo un episodio che ha cambiato tutto: al termine del servizio serale, un senzatetto veniva spesso a chiedere qualcosa da mangiare. Con il permesso del proprietario, ogni sera gli preparavo un pò di cibo. Al mattino, tornando al lavoro, vedevo che non c’era più nulla: quel piccolo gesto quotidiano mi riempiva di gioia”. Il giovane senta qualcosa di diverso e ne parla con il sacerdote italiano di Genk, don Gregorio Aiello che lo aiuta nel discernimento. Poco dopo entra nel seminario “San Giovanni XXIII” di Lovanio dove si forma per diventare sacerdote. Una vocazione nata in emigrazione che porta con se “lo spirito del sacrificio evangelico: avrei potuto rientrare in Italia ma ho scelto di rimanere in Belgio”.

Per don Gianluca “emigrare significa anche portare con sé la propria patria: la fede, le radici, la cultura diventano doni da condividere. E significa conoscere da vicino la fatica dell’integrazione, la solitudine, le ferite di chi vive lontano da casa”.

Come vivi questo tuo momento nella Chiesa belga?

“Con gratitudine ma anche con la consapevolezza delle sfide. Le difficoltà non mancano: la scarsità di sacerdoti, la diminuzione dei fedeli…Eppure ci sono aspetti positivi e ricchi di frutto. Metto al centro la preghiera e dedico molta energia ai giovani che sono alla ricerca di Dio e del senso della vita”.

Foto don Loperfido

Nella tua esperienza hai incontrato molti italiani in emigrazione: oggi continui ad incontrarli?

“Sì, mantengo sempre un legame forte con la Missione Cattolica Italiana di Genk: è lì che la mia vocazione è cresciuta e lì torno ogni volta che posso, per sentirmi a casa. Incontro ancora molti italiani, sia di prima, seconda e terza generazione, sia nuovi migranti arrivati in Belgio in cerca di un futuro migliore. Penso ai giovani che incontro a Lovanio, città universitaria, ma anche a Bruxelles e Gent: ragazzi che lavorano e studiano con grande sacrificio, pieni di forza e talento”. Se “ripenso al mio cammino – aggiunge – vedo come ogni tappa, l’infanzia a Taranto, l’emigrazione in Belgio, il lavoro in cucina, l’incontro con i poveri, gli anni di seminario, sia stata un passo con cui il Signore mi ha condotto fin qui. Nulla è stato casuale: persino le fatiche e le crisi hanno avuto un senso, perché mi hanno permesso di capire meglio chi sono e per cosa vivo. Oggi, da sacerdote, porto nel cuore questa certezza: la vera felicità non sta nelle comodità, ma nel dono di sé. E proprio l’esperienza dell’emigrazione me lo ha insegnato con forza: quando si vive lontano da casa si comprende quanto sia prezioso sentirsi accolti, ascoltati, amati”. Per questo “credo che il futuro della Chiesa in Belgio e in Europa passerà attraverso le comunità di migranti, capaci di portare vitalità, speranza e nuove energie. Non è un cammino facile, ma è un’opportunità che lo Spirito ci mette davanti”.