Il Giubileo dei sacerdoti e l’arte difficile di restare umani

Un sacerdote riflette sul significato del Giubileo per i preti: peccatori come tutti, chiamati a confidare nella misericordia e nella speranza. Anche le fatiche del ministero, le chiese vuote e la solitudine pastorale diventano occasione per rinnovare la fede e affidarsi all’amore di Dio che risana ogni male

Foto Calvarese/SIR

Quando preparo un gruppo di bambini alla prima confessione, una domanda che invariabilmente mi pongono è: “Ma anche i preti si confessano?”. Ovviamente rispondo di sì: visto che anche noi preti commettiamo peccati, dobbiamo confessarli anche noi. Ma dopo che li abbiamo confessati e abbiamo ricevuto l’assoluzione rimane la consapevolezza che le nostre colpe possono avere conseguenze più gravi di quelle degli altri fedeli, perché da noi ci si aspetta di più.

Anche solo una parola dura, un atteggiamento poco accogliente, una mancanza di ascolto o di rispetto possono allontanare una persona dalla Chiesa o farle perdere fiducia in essa.

Certe occasioni perdute per stanchezza, paura, pigrizia o rabbia non si recuperano più: si vorrebbe poter tornare indietro, ma non è possibile. Allora, confortato da ciò che afferma la bolla di indizione del Giubileo, “Spes non confundit”, credo che le pratiche legate all’indulgenza si possano anche considerare come una supplica rivolta a Dio perché la sua onnipotenza e il tesoro di bene che c’è nella Chiesa risanino le conseguenze del male che abbiamo commesso. Quel che le nostre sole forze non possono fare può essere compiuto da Dio per vie misteriose grazie all’azione e alla preghiera di chi agisce secondo la sua volontà e produce i buoni frutti della redenzione. Le azioni buone, la preghiera, la pazienza nelle prove, l’eucaristia, tutto il tesoro di bene che c’è nella Chiesa, compreso il nostro minimo contributo, va a contrastare il peccato e i suoi effetti.

Giubileo dei sacerdoti è anche questo: riconoscerci, insieme al popolo di Dio che ci è affidato, bisognosi di indulgenza e pellegrini di speranza.

Di speranza ne abbiamo bisogno, noi preti. In Italia siamo sempre meno numerosi e con l’età che avanza il carico di lavoro aumenta, invece di diminuire; vediamo le chiese svuotarsi e le famiglie allontanarsi; facciamo sempre più fatica a interloquire con i giovani e si potrebbe andare avanti un pezzo con l’elenco dei problemi e delle difficoltà. Ma come disse Papa Francesco: “Questa non è un’epoca di cambiamenti, ma il cambiamento di un’epoca”. Qualcosa di nuovo sta per nascere, ma prima deve morire il vecchio, e la morte di solito non è una passeggiata. Mosè morì senza poter entrare nella terra promessa e così pure molti di noi non faranno in tempo a vedere come sarà la Chiesa di domani, ma nel passare attraverso la Porta Santa confessiamo la nostra fiducia e la nostra speranza:

Dio guida il suo popolo a rinnovarsi e a diventare sempre più umile, più povero, più fedele al Vangelo.

Ricordo di aver ascoltato alla televisione, a metà degli anni ’90, la testimonianza di un sacerdote ortodosso che confessava la sua “colpa”: da ragazzo credeva che il regime sovietico avrebbe presto cancellato la fede cristiana, perciò aveva deciso di diventare prete perché la sua Chiesa potesse sopravvivere qualche anno in più. Ma nel 1991 l’Unione Sovietica si dissolse e le chiese tornarono a riempirsi. E lui confessava davanti alla telecamera di non aver avuto abbastanza fede e di aver peccato contro la speranza, proprio lui che aveva scelto di esporre la sua vita alla persecuzione per amore di Cristo e della Chiesa.

Nel Giubileo dei sacerdoti confesseremo la nostra fede e la nostra speranza: le porte degli inferi non prevarranno sulla Chiesa. Sarà la Porta Santa, la porta che è Cristo, a introdurci in una nuova tappa del pellegrinaggio verso il Regno di Dio, anche se molti di noi, dopo aver tanto camminato, la vedranno solo da lontano.

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