Giovani e speranza. Cosa significa sperare in una comunità che sembra non esistere più e in cui i riti sono guardati con sospetto?

L'esperienza di un consigliere nazionale del settore giovani di Ac a Parigi: "Mi ha ricordato che la comunità non si sceglie, si incontra. Non sempre come ce l’aspettiamo. La comunità non è un dato acquisito, ma un dono che si riceve ogni volta che si ha il coraggio di restare".

Notre-Dame de Paris, messa con i sacerdoti (Foto arcidiocesi di Parigi)

Avevo calcolato, ancor prima di partire, la distanza dalla parrocchia più vicina. Mi conoscevo abbastanza da sapere che, lontano da casa, avrei cercato subito rifugio nella liturgia, in quei segni e quei simboli – fedeli e universali – che ci precedono e ci uniscono: perché anche tra volti estranei, è il battesimo a radunarci come un unico popolo, chiamato a celebrare lo stesso mistero. Il giorno in cui entrai per la prima volta all’Église Saint-Pierre et Saint-Paul nel mio quartiere fui accolto da un odore d’incenso familiare, lieve e solenne. Tuttavia, quel profumo, pur così vicino ai miei ricordi, non mi avvolse in un abbraccio. L’ambiente era quello che conoscevo, eppure mi sentivo orfano. Ero lì, ma non ero ancora “di lì”. Avevo provato a colmare il divario con qualche applicazione sul telefono, per seguire la liturgia in francese. Un tentativo utile, forse necessario, ma non sufficiente. La lingua, dopotutto, è solo una soglia. Si può comprendere ogni parola e restare comunque fuori dalla porta. Quello che mi mancava non era tanto capire, ma entrare in relazione, condividere una fede vissuta, non solo professata. È in quel momento che ho sentito, più forte del previsto, la nostalgia della mia comunità d’origine. La parrocchia da cui provengo, con tutte le sue piccole cose. Non solo il luogo dove ho mosso i primi passi nella fede, anche la culla silenziosa in cui è maturata la decisione di partire, di proseguire gli studi altrove. Ma il mistero della comunità è più paziente di me. Agisce in silenzio, attraverso la ripetizione. Attraverso la fedeltà di riti che possono apparire sterili, e invece, lentamente, creano confidenza, legano all’Altro e all’altro da sè. Così, senza accorgermene, quei gesti hanno tessuto piano piano un ordito di nuove relazioni. Ho imparato dapprima i loro volti, poi le loro storie. E loro hanno imparato il mio nome. La comunità ha preso forma, non come qualcosa da costruire, ma come qualcosa da riconoscere. Era lì, già presente, come un seme che aspettava la propria stagione di fioritura.

Non che non lo sapessi prima, ma l’esperienza qui, a Parigi, ha rinnovato e sostenuto la mia certezza: abbiamo bisogno della comunità! La fede non si vive da soli. Non è mai un affare privato. Nasce e cresce dentro una relazione, anzi, dentro un intreccio di relazioni. È quanto accade ai due ciechi che seguono Gesù (cf. Mt 9, 27-31). Non vedono, e non solo con gli occhi. Camminano nel buio, ma lo fanno insieme. E quando si avvicinano a lui, la domanda non è rivolta al singolo, ma alla coppia: “Credete che io possa fare questo?” (Mt 9, 28). La fede, in quel momento, è un’esperienza comune. Non è solo un assenso interiore, è un atto condiviso. Anche la guarigione non è individuale. È data a entrambi, nello stesso istante. Non si salvano da soli, ma l’uno con l’altro. Perché la fede non è mai disgiunta dalla carità. Fidarsi insieme è anche sorreggersi, custodirsi, sostenersi nel cammino. L’altro diventa parte essenziale della mia salvezza. E questo richiede umiltà: riconoscere che non basto a me stesso, che l’altro mi è necessario. Non per completarmi, ma per guarirmi. Per farmi uscire da me. Occorre accettare che l’altro mi inquieti, mi interroghi, allarghi i confini delle mie certezze. È così che cresce la fede: non quando ci chiudiamo per difenderla, ma quando la consegniamo al confronto, alla vita vissuta insieme. Solo così si fa esperienza della Chiesa. Non come luogo da frequentare, ma come comunione da vivere. Perché dove due o tre si radunano nel suo nome, lì davvero il Risorto si rende presente (cf. Mt 18, 20). E diventa possibile riconoscerlo non solo nei segni, ma nella vita che si trasforma. Quella rete silenziosa e concreta che ci unisce, che ci mette in ascolto e ci rende responsabili gli uni degli altri, è il luogo dove il Vangelo prende forma. Ed è lì che si impara a sperare.

La speranza diviene l’oggetto della nostra fede, il punto di incontro tra il già avvenuto e il possibile che ancora si attende. “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9, 23): credere significa fidarsi dell’affidabilità di Dio, che apre all’uomo l’infinito dei possibili. La speranza, infatti, non è semplice credenza, ma fedeltà alla possibilità che in Cristo si è fatta certezza. “La fede, dunque, è lo sperare affinché il possibile avvenga, perché è già avvenuto, e proprio questo rende il possibile ancora più sperabile” [1]. In questo senso sperare da soli non basta. La speranza, come la fede, ha bisogno di corpo. E il corpo della speranza è la comunità. Ci sono giorni in cui il cuore si fa pesante, e anche solo alzare lo sguardo sembra troppo. È allora che la speranza dell’altro diventa il mio sostegno. Quando io non riesco più a credere in un domani, qualcuno lo fa al posto mio. Quando la Parola sembra non parlarmi più, è la vita di un fratello che continua a proclamarla. Sperare insieme non è un gesto romantico: è un atto ecclesiale, pasquale. È vivere come le donne riunite presso la croce nella speranza della risurrezione (cf. Gv 19, 25), come gli undici riuniti nel cenacolo nella speranza di ricontrare il Signore risorto e ricevere il suo Spirito (cf. Gv 20, 19-23). È lì che nasce la Chiesa: nel silenzio condiviso, nell’attesa che si organizza, nella veglia che si fa azione corale. Perché se è vero che “nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8, 24), allora la speranza non è solo desiderio, ma partecipazione alla salvezza. E la salvezza, lo sappiamo, non è mai solitaria. La speranza è un cammino che si fa a passo lento, spesso incerto. Non è sempre visione chiara del futuro, ma è fiducia che, insieme, ci si può arrivare. Per questo la comunità è indispensabile: è la custodia della speranza comune. È il luogo in cui si ricorda che Dio è fedele, anche quando la memoria personale vacilla. È il volto concreto di una promessa che non si spegne. In fondo, sperare insieme è riconoscere che il Regno non ci sarà solo dato, ma anche consegnato. Sarà frutto della comunione, di mani intrecciate, di cuori che si sollevano a vicenda. Perché se “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rm 8, 28), allora anche la speranza di uno solo, vissuta e offerta in mezzo agli altri, può diventare seme di risurrezione per tutti.

Parigi, dunque, mi ha ricordato che la comunità non si sceglie, si incontra. Non sempre come ce l’aspettiamo. La comunità non è un dato acquisito, ma un dono che si riceve ogni volta che si ha il coraggio di restare. Restare anche quando ci si sente stranieri. Restare fino a riconoscere, nell’altro, qualcosa di proprio. E in sé, qualcosa di universale. La fede non ha bisogno solo di convinzioni, ma di presenze. Di legami che restano quando le parole non bastano. E la speranza – ho imparato – non si tiene in piedi da sola. È qualcosa che ci si scambia, anche senza dirlo. Uno la porta per entrambi, quando l’altro non ce la fa. Poi, un giorno, ci si scopre a farlo a propria volta. È così che ci si salva insieme. Ed è così, anche qui, che ho cominciato a riconoscere di nuovo la mia casa. Non perché tutto mi fosse familiare, ma perché qualcuno lo è diventato.

[1] D. Collin, La fede è ancora possibile?, tr. it. a cura di Luisa Andreis, Magnano 2024, p. 20.

 

(*) consigliere nazionale per il Settore giovani di Azione cattolica