
La scomparsa di Papa Francesco ha scosso il mondo con la stessa intensità con cui egli ha abbracciato l’umanità durante il suo straordinario pontificato. Dal primo momento in cui apparve sul loggiato di San Pietro definendosi vescovo “venuto dalla fine del mondo”, Francesco ha incarnato una rivoluzione della tenerezza che ha ridisegnato il volto della Chiesa contemporanea attorno a tre pilastri fondamentali: la prossimità agli ultimi, la cura della terra (creato e pace) e un profondo rinnovamento ecclesiale.
Il tratto distintivo del magistero bergogliano è stata la sua inflessibile prossimità agli “scartati”. Jorge Mario Bergoglio ha demolito distanze secolari tra il soglio pontificio e le periferie esistenziali, trasformando la cattedra di Pietro in un pulpito itinerante che ha raggiunto i margini dimenticati dell’umanità. L’ultimo gesto pubblico – la visita ai detenuti del carcere Regina Coeli lo scorso Giovedì Santo – ha racchiuso l’essenza del suo approccio: una Chiesa che non predica la misericordia, ma la pratica concretamente.
Da Lampedusa alle favelas brasiliane, dalle periferie romane ai campi profughi di Lesbo, Francesco ha sfidato l’indifferenza globale con gesti tangibili e strutturali: le docce per i senzatetto installate sotto il colonnato berniniano, l’ambulatorio medico vaticano per gli indigenti, i pranzi festivi con gli emarginati.
“Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!”:
non un semplice slogan ma un programma pastorale perseguito contro ogni resistenza, traducendo il Vangelo in grammatica dell’azione quotidiana. Tenerezza e misericordia sono state le fondamenta del suo pensiero teologico. Francesco ha ridisegnato l’immagine di Dio, liberandola da rigide costruzioni giuridiche e moralistiche per riportare al centro la rivelazione della divina compassione.
La Laudato Si’ ha segnato un punto di svolta epocale nell’approccio alla questione ambientale. Francesco ha superato la falsa dicotomia tra crisi ecologica e sociale, forgiando una sintesi di straordinaria profondità: “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”.
Questa visione olistica ha dato forza alla sua denuncia contro i sistemi economici predatori, aprendo la strada a un’ecologia integrale dove ambiente, economia e società formano un unico orizzonte di senso.
Questa sensibilità si è concretizzata anche nella sua azione diplomatica. Ha affrontato con eccezionale competenza geopolitica la questione della pace, coniando il pregnante concetto di “terza guerra mondiale a pezzi”. Il suo sguardo pastorale si è posato con predilezione sull’Ucraina “martoriata” e sul dramma palestinese, senza dimenticare i conflitti dimenticati dall’agenda mediatica: Myanmar, Sudan, Congo.
Di capitale rilevanza teologica è stato il “Documento sulla Fratellanza Umana” sottoscritto con il Grande Imam di Al-Azhar, innovazione senza precedenti nel dialogo interreligioso che ha elevato la fraternità universale a principio fondante di un nuovo umanesimo planetario. La sua diplomazia, radicata nel kerygma evangelico, ha perseguito instancabilmente la ricucitura di lacerazioni apparentemente insanabili nel tessuto geopolitico contemporaneo.
Il terzo pilastro dell’eredità bergogliana è il profondo ripensamento dell’autocomprensione ecclesiale. La “Chiesa in uscita” ha innescato una rivoluzione copernicana nell’ecclesiologia contemporanea. La sinodalità, elevata da prassi consultiva occasionale a principio ecclesiologico costitutivo, ha ridefinito le dinamiche di partecipazione nell’intero corpo ecclesiale.
Questo approccio ha prefigurato un’ecclesiologia comunionale che recupera la visione conciliare della Chiesa come popolo di Dio in cammino, dove ogni battezzato è protagonista della missione evangelizzatrice. Questa opera riformatrice ha suscitato opposizioni significative. Il Pontefice ha dovuto fronteggiare resistenze endogene, talora di inusitata asprezza, provenienti da settori ancorati a impostazioni tradizionaliste. Le aperture pastorali verso situazioni matrimoniali irregolari codificate in Amoris laetitia hanno catalizzato dispute teologiche di notevole intensità, senza però mai distoglierlo dal suo programma di riforma.
Francesco rimarrà nella memoria ecclesiale anche come il Papa della comunicazione gestuale, maestro di una semiologia pastorale in cui le azioni simboliche acquisiscono valenza superiore alla parola. Indelebile resta l’iconografia del 27 marzo 2020: quella figura fragile eppure determinata che avanzava solitaria in una Piazza San Pietro deserta e piovosa, metafora dell’umanità contemporanea, disorientata ma ancora depositaria di speranza.
La comunità napoletana conserva un ricordo particolarmente vivo delle due visite del Pontefice. La visita del 21 marzo 2015 rappresentò un’emblematica sintesi del pontificato bergogliano. Francesco scelse significativamente Scampia come prima tappa, immergendosi nel cuore delle contraddizioni sociali di Napoli. “La corruzione puzza”, tuonò con forza profetica in piazza Giovanni Paolo II, esortando i giovani a non lasciarsi rubare la speranza. La giornata proseguì con intensità crescente: la messa in Piazza del Plebiscito; il pranzo condiviso con i detenuti di Poggioreale, dove il Papa si fermò ad ascoltare le storie di chi vive ai margini; l’incontro con gli ammalati al Gesù Nuovo, dove si chinò con tenerezza sui più sofferenti; il dialogo vibrante con i giovani sul lungomare. La vista in cattedrale con la venerazione del sangue di San Gennaro in Cattedrale divenne simbolico del legame spirituale con la città.
La seconda visita, nel giugno 2019 per un convegno teologico presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, riaffermò l’attenzione del Papa per la riflessione radicata nei contesti periferici. In quella occasione, Francesco sottolineò l’importanza di una teologia del Mediterraneo, capace di elaborare un pensiero che risponda alle sfide concrete delle periferie esistenziali e geografiche. E in questo, Napoli, con la sua complessa realtà sociale e la sua profonda religiosità popolare, rappresenta per Francesco un laboratorio ideale della “Chiesa in uscita”: una comunità cristiana capace di abitare le contraddizioni, di sporcarsi le mani nelle periferie, di coniugare devozione e impegno sociale, sintesi vivente dei tre pilastri del suo pontificato.
Pertanto le trasformazioni ecclesiologiche inaugurate dal Papa “venuto dalla fine del mondo” non costituiscono una parentesi temporanea, ma un itinerario irreversibile che interpella ogni comunità cristiana a un discernimento profondo e coraggioso.
La sfida più ardua risiede nell’assimilare non tanto singoli pronunciamenti, quanto la metodologia pastorale che li ha generati: la priorità dell’ascolto rispetto al giudizio, l’accompagnamento libero da pregiudizi, la preminenza della misericordia senza compromettere la verità.
L’Evangelii gaudium, manifesto programmatico del pontificato, enunciava un principio fondamentale: “il tempo è superiore allo spazio”. In tale prospettiva, Francesco ha avviato processi di trasformazione ecclesiale che trascendono la sua persona. Ha seminato con generosità, consapevole che altri avrebbero raccolto i frutti del suo lavoro. Accogliamo, dunque, l’eredità profonda del suo magistero: una Chiesa che non teme di uscire dalle proprie sicurezze per raggiungere le periferie dell’umanità contemporanea, una Chiesa che riconosce, come ripeteva citando Sant’Ireneo, che “gloria Dei vivens homo”, la gloria di Dio è l’essere umano nella pienezza della sua esistenza.