Papa Francesco e i giovani malati a Fatima. Don Fabio Marella (cappellano Meyer): “Il dolore ci fa vedere l’esistenza con gli occhi di Dio”

"Dalla croce, nasce la vita. La più grande sofferenza, può trasformarsi in grazia. È un mistero che non possiamo spiegare. La vita senza impegno è piatta e i giovani ci insegnano a non avere una vita piatta". Parla don Fabio Marella, cappellano dell'ospedale pediatrico Meyer, nel giorno in cui Papa Francesco ha pregato il Rosario con i giovani ammalati nella Cappella delle Apparizioni del Santuario di Nostra Signora di Fatima

(Foto Siciliani- Gennari/SIR)

“È un servizio che mi arricchisce come uomo e come prete. In ospedale ci sono giovani che restano pochi giorni, altri un periodo assai lungo. Per me è sperimentare quotidianamente il Vangelo vivente. I giovani hanno la capacità di trovare in ogni situazione lo spunto per andare avanti”. Don Fabio Marella è il cappellano dell’ospedale pediatrico Meyer. Lo raggiungiamo nel giorno in cui Papa Francesco ha pregato il Rosario con i giovani ammalati nella Cappella delle Apparizioni del Santuario di Nostra Signora di Fatima.

(Foto Corriere fiorentino)

Anche in ospedale i giovani possono essere “maestri di speranza”, come ha chiesto il Santo Padre durante la Gmg di Lisbona?
In periodi difficili e complessi come una malattia da affrontare, le lunghe cure, lo scoraggiamento iniziale, i giovani sanno tirare fuori un’energia inspiegabile. L’altro giorno parlavo con un ragazzo che ha davanti a sé un periodo lungo di terapie faticose. E lui già progetta il futuro, non vede l’ora di tornare a lavorare mentre prima, mi raccontava, non faceva che attendere le ferie. La malattia cambia i programmi e ridisegna le nostre priorità. Ma i giovani non vogliono falsità. Devono conoscere la verità ed è nostro dovere rispettare questa volontà. Poi dobbiamo trovare il modo corretto per informarli sulle diagnosi e sulle cure da fare. Ma per combattere insieme, la verità è fondamentale. I nostri dialoghi non devono essere inganni.

Vede il Signore all’opera nel dolore?
Non riesco a dare una risposta alla malattia e alla morte, credo che nessuno sia in grado di farlo. Ma vedo ogni giorno il Signore che opera. Quando i giovani sono afflitti, Dio si affianca a loro. Non si sostituisce a chi soffre, ma lo sostiene mentre parla al suo cuore. Non saprei dirlo in altro modo, o forse sì.

È un po’ come il delfino: a volte nuota davanti ai suoi cuccioli, a volte dietro, ogni tanto li spinge a galla. E il Signore fa lo stesso con noi: nei momenti difficili, ci solleva. Non ci soffoca con la sua presenza, ma non ci abbandona mai.

È al nostro fianco nel tempo della gioia e in quello del dolore. Vedo la mano di Dio nei luoghi della sofferenza. La Parola che pronuncio durante la messa al Meyer è parola di vita. È una mia fortuna di prete, vedere con i miei occhi la potenza del Vangelo.

Nel messaggio per la Giornata mondiale del malato di quest’anno, Francesco ha ricordato che “non siamo mai pronti per la malattia”…
Durante la malattia, la vita cambia. La malattia offre la possibilità di centrare la nostra esistenza, capire cosa è importante. Certo, non dobbiamo invocarla ma è un’opportunità che ciascuno di noi può cogliere. Ciò che diamo per scontato, non lo è mai: il permesso di stare mezza giornata in reparto con la propria fidanzata o i due giorni di permesso per tornare a casa con la famiglia diventano un dono. E la croce diventa speranza.

I nostri fratelli armeni hanno una croce particolare. Spesso non c’è neanche il Cristo al centro, ma le braccia della croce terminano in una vegetazione.

Dalla croce, nasce la vita. La più grande sofferenza, può trasformarsi in grazia. È un mistero che non possiamo spiegare. La vita senza impegno è piatta e i giovani ci insegnano a non avere una vita piatta.

La malattia è una sfida per i modelli di perfezione che il mondo propone?
Quando tutto va bene, non capiamo il valore delle cose. Ma la vita non è la perfezione. Incontro ragazzi che erano promesse del calcio, poi un tumore alla gamba gli nega per sempre il sogno coltivato da bambini. E la vita finisce? No, c’è una rinascita. Scoprono qualcosa di nuovo, vedono quello che prima non vedevano. La malattia ci fa vedere l’esistenza con gli occhi Dio, diversa da come l’abbiamo immaginata e costruita. Tanti giovani che escono dal Meyer scelgono di dedicare la loro vita ad aiutare gli altri, anche nella professione. È qualcosa di incredibile.

Ci sono storie che porta nel cuore?
Una splendida e giovane coppia di Trapani ha avuto una bambina nata malata. Hanno compiuto il viaggio della speranza a Firenze, dove la piccola è stata curata e battezzata. Poi la bambina è morta, le cure di cui disponiamo non sono state in grado si salvarla. Ma con i genitori abbiamo camminato insieme in questi mesi. Ho sentito il loro dolore, ma anche la serenità di chi sa di aver fatto tutto quello che umanamente era possibile fare. Di chi ha accompagnato la propria figlia fino all’ultimo istante. Quella serenità è opera del Signore.

Siamo spettatori davanti al dolore di un bambino, davanti alla disperazione di un genitore. Possiamo immaginare cosa provano, ma non possiamo comprendere quello che avviene dentro. Dobbiamo fare un passo indietro, per rispetto a loro e alla vita. Eppure il Signore lavora in quel dolore. E vorrei aggiungere una cosa.

Prego.
Il papà di questa bambina è nelle forze armate. È dovuto restare a Firenze tanti mesi e non aveva più ferie a disposizione. Da tutta Italia, i colleghi gli hanno donato le loro. Erano così tante, da superare la quota consentita per legge. Il dolore può generare amore. Il male è un boomerang, ma il bene è un’esplosione di vita.

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