Tutti siamo “re”, cioè “servi”

“Ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”: la frase della seconda Preghiera eucaristica non è un plurale “maiestatis” del celebrante, ma un vero plurale comunitario. Quando il sacerdote pronuncia queste parole si renderebbe necessaria una chiosa (magari da fare anche in altri momenti della messa o nella catechesi) per spiegare di chi sia il “servizio sacerdotale”.

Foto Calvarese/SIR

“Ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”: la frase della seconda Preghiera eucaristica non è un plurale “maiestatis” del celebrante, ma un vero plurale comunitario. Quando il sacerdote pronuncia queste parole si renderebbe necessaria una chiosa (magari da fare anche in altri momenti della messa o nella catechesi) per spiegare di chi sia il “servizio sacerdotale”. Come ci ha chiaramente ribadito il Concilio Vaticano II, i cristiani con il battesimo sono resi “sacerdoti, profeti e re” in Cristo (lo si ripete sempre nelle catechesi battesimali, ma spesso il concetto non è recepito, tanto che tra gli stessi “praticanti” è da presumere che pochi comprendano il senso di quelle parole della Preghiera eucaristica). Dunque, tutti “sacerdoti”, in quanto chiamati a offrire a Dio preghiere e suppliche e soprattutto, in unione al celebrante (sacerdote “ordinato”), quel sacrificio di Gesù che offre se stesso sulla croce e continuamente si offre nella messa; sacerdoti chiamati anche a fare di tutta la propria vita un atto di “culto spirituale” operando in famiglia e nel mondo come “adoratori” che, “in spirito e verità”, consacrano se stessi e il mondo e ogni cosa buona a Dio. Tutti “profeti”, in quanto abilitati e impegnati ad annunciare il Vangelo con la parola e con le azioni, cioè con una vita coerente con la propria fede, formati e pronti a “rendere ragione della speranza che è in noi”, annunziando la Parola di Dio meditandola nel proprio cuore, giudicando gli eventi lasciandosi illuminare dalla sua Luce, sapendo leggere i segni dei tempi con lo sguardo ispirato da Dio (il famoso “discernimento”, altra parola di difficile significato e comprensione). E tutti, appunto, “re” in “Cristo re dell’universo”, come ci viene solennemente ricordato, oggi e ogni anno, nell’ultima domenica dell’anno liturgico. Una “regalità” capace di amare alla maniera di Cristo che, da grande che era ed è, ha “svuotato se stesso” umiliandosi e facendosi servo obbediente: nella Chiesa – e nella Chiesa nel mondo –, infatti, le cose sono rovesciate, secondo la logica del Vangelo: chi vuol essere il primo tra voi sia come l’ultimo e il servo di tutti, ci ripete e ci ha mostrato Gesù. Tanto più si è “re” – ogni cristiano e ogni uomo che voglia essere pienamente umano (e dunque ogni re e principe e capo nella terra) – quanto più si serve e si ama, imitando il “Re dell’universo” che è Re di misericordia e di amore. Siamo chiamati ad essere parte viva e attiva del suo Regno, che, come ripetiamo nel prefazio di questa festa, è “regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”. Ecco il regno di cui anche noi siamo coprotagonisti con il Principe della pace. Se intanto tutti i cristiani comprendessero questo, ci sarebbe certamente più pace sulla terra e accanto a noi. Papa Francesco ha indicato la festa di Cristo Re per vivere la “Giornata mondiale della Gioventù” nelle diocesi (dopo che fu celebrata per molto tempo nella Domenica delle Palme, in cui Gesù veniva acclamato re, ma poi rinnegato…) con lo slogan che ci unisce a quella internazionale di Lisbona in programma ai primi di agosto 2023: “Maria si alzò e andò in fretta”. La regalità di Maria “Regna” è in questa fretta di servire la cugina, in questo slancio a farsi serva dei fratelli, come si era proclamata serva di Dio e come il suo Figlio Gesù avrebbe dimostrato a tutti con la propria vita totalmente donata.

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