Vangelo del 13 febbraio: le Beatitudini e la nuova umanità

Dio scommette felicità su coloro sui quali la storia mondana non scommette: sguardo creatore si posa sui piccoli, gli affamati, i piangenti, i rifiutati. Perché, nella loro bassa pianura, essi sono aperti alla kenosi del Figlio suo, grazia dall’Alto. Dio fa ripartire il suo Adamo ancora una volta solo da un pugno di polvere. Sapremo gustare questa strana felicità, oggi - nel guado di molteplici crisi -, cogliendola con lo sguardo volto ai poveri e, in trasparenza attraverso di loro, sulle moltitudini che cercano vita?

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Beatitudini: un testo così noto ma, forse, poco compreso. Vangelo, questo, che per essere interiorizzato dev’essere anzitutto letto in Gesù, dentro il filo della sua vita. Qui, secondo la narrazione di Luca, è a una svolta radicale.
Prima di erompere in queste parole inaugurali, Gesù era salito sul monte, a pregare il Padre, tutta la notte. Nel legame con l’Abbà si matura in lui la lettura di un non facile vissuto: il rifiuto oppostogli nella sinagoga da parte dei capi religiosi urge per essere riletto dinanzi a Colui che l’ha mandato. Il rifiuto preannuncia (Luca lo vede in prospettiva) quello che accadrà alle prime comunità cristiane. Dopo quella lunga notte, Gesù scende e sceglie i dodici. Piccolo gruppo di uomini qualunque. Piccolo resto a cui dedicarsi, lasciando che i capi vadano per la loro strada. Saranno questi poveri a raccogliere e trasmettere la preziosa sua eredità. Grazia a caro prezzo (D. Bonhoseffer). È indispensabile avere lo sguardo a questo silenzioso orizzonte per comprendere la portata del primo insegnamento di Gesù, svelamento di quell’annuncio dell’ “oggi” nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,14). È il mistero di quella notte sul monte, a rovesciarsi – nel Sermone della pianura – come una cascata di montagna, a balze: sui dodici, sui discepoli, sulle moltitudini.

Quella discesa dal monte è piena di simbolo. Come Mosè che scende dal monte con le tavole della Torah. Con i dodici, e i discepoli: loro poveri, loro affamati, loro piangenti, loro presto rifiutati e perseguitati per aver creduto nel Messia povero, affamato, piangente, perseguitato. Loro, primizia, e servi, di una folla immensa.

Al momento in cui scende dal monte, oltre al rifiuto, Gesù ha toccato però da vicino anche l’attesa delle moltitudini di toccarlo, per ricevere la sua potenza che guarisce tutti. E ha guarito molti. Così, Gesù erompe come in un canto, in mirabile sintonia col canto uscito all’inizio dalle labbra di sua madre, quando rimase incinta di lui, e lo sguardo andò agli umili, agli affamati, alla discendenza di Abramo (Lc 1,50-55). Un canto ispirato dalla visione congiunta – l’Abbà, e il piccolo gregge dei discepoli insieme alle folle: un niente che nel suo incavo attira il germe del Regno.

Non è dunque il manifesto per una morale superiore. Non è la morale riservata per suore o preti. È canto di vittoria del Povero. Qui, Gesù dà ai suoi una sorta di carta d’identità, che ha per tema: benedizione e maledizione della vita.

Credenti non si nasce, si diventa. Felici, umanamente, non si nasce, si diventa attraverso la maturazione di un legame d’alleanza a tutta tenuta. Attraverso il processo dell’affidarsi perdutamente alla fedeltà di Dio. Nutrito alla falda dei profeti (la splendida prima lettura, da Geremia, lo testimonia), Gesù annuncia beatitudine, anzi proclama felicità alta e già presente, proprio in costoro che ha davanti: gli apostoli, i discepoli – e in dissolvenza le folle. Quella felicità che da secoli, dall’Origine, veniva inseguita a tentoni, Gesù la contempla nei poveri che in attesa l’attorniano.
Ecco: le beatitudini evangeliche hanno questo di singolare: per poter dire dell’uomo felice, raccontano Dio: come egli “scende”, compie la promessa sul suo Messia, e come il Messia riversa la felicità di Dio sulla terra.
Per raffigurare in verità i beati, cui Gesù nel Vangelo di Luca si rivolge in modo diretto, occorre dare figura anche a chi si sottrae al discendere di Dio. Gesù li descrive – come in un pianto (“guai a voi…”) -: e sono la faccia oscura dell’uomo, vivo in ciascuno di noi, che vuol farsi da sé.
Nuova umanità annuncia Gesù. Un capovolgimento mai scontato. Dio scommette felicità su coloro sui quali la storia mondana non scommette: sguardo creatore si posa sui piccoli, gli affamati, i piangenti, i rifiutati. Perché, nella loro bassa pianura, essi sono aperti alla kenosi del Figlio suo, grazia dall’Alto. Dio fa ripartire il suo Adamo ancora una volta solo da un pugno di polvere.
Sapremo gustare questa strana felicità, oggi – nel guado di molteplici crisi -, cogliendola con lo sguardo volto ai poveri e, in trasparenza attraverso di loro, sulle moltitudini che cercano vita?

(*) monaca di Viboldone

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