P. Giorgio Padovan (Comboniani): “Italia ed Europa terre di missione: la società sta soffrendo e si è perso l’entusiasmo e la gioia di essere cristiani”

Dallo scorso febbraio la comunità dei Comboniani di Villa Baratoff a Pesaro, composta oggi da otto missionari, ha un nuovo superiore. Si tratta di padre Giorgio Padovan: “Padovano di nome e di fatto – dice scherzando - visto che sono nato proprio a Padova nel 1956”. Poi gli studi, la vocazione e la prima Messa da sacerdote che coincide con una data storica per l’Italia: "Era l’11 luglio 1982, proprio il giorno in cui gli Azzurri vincevano la Coppa del Mondo di calcio ma posso dire che mi sento un missionario dal cuore brasiliano". In questo racconto però la fede calcistica non c’entra proprio nulla. Piuttosto stiamo parlando della fede in Gesù che spinge padre Giorgio a vivere per ben 25 anni in terra “brasileira” come missionario ad gentes

Dallo scorso febbraio la comunità dei Comboniani di Villa Baratoff a Pesaro, composta oggi da otto missionari, ha un nuovo superiore. Si tratta di padre Giorgio Padovan: “padovano di nome e di fatto – dice scherzando – visto che sono nato proprio a Padova nel 1956”. Poi gli studi, la vocazione e la prima Messa da sacerdote che coincide con una data storica per l’Italia: “Era l’11 luglio 1982, proprio il giorno in cui gli Azzurri vincevano la Coppa del Mondo di calcio ma posso dire che mi sento un missionario dal cuore brasiliano”. In questo racconto però la fede calcistica non c’entra proprio nulla. Piuttosto stiamo parlando della fede in Gesù che spinge padre Giorgio a vivere per ben 25 anni in terra “brasileira” come missionario ad gentes, ovvero secondo la missione evangelizzatrice della Chiesa rivolta a tutti i popoli. “Dapprima in Amazzonia – racconta – poi nelle periferie delle grandi città come San Paolo, Curitiba, Belo Horizonte”. Una volta rientrato in Italia “altri 15 anni ma sempre come missionario ad gentes, questa volta tra i miei connazionali”. Già, perché ormai da tempo anche la secolarizzata Europa è considerata terra di missione. Otto anni a Padova nella presidenza del consiglio pastorale diocesano e formatore del biennio filosofico/teologico del seminario comboniano. “Oggi posso dire che la mia ‘parrocchia’ va da Palermo a Trento”, spiega padre Giorgio che attualmente è anche segretario provinciale della missione dei comboniani d’Italia che raggruppa le 23 comunità presenti nel nostro Paese. A lui, assieme al segretariato missione, spetta il compito di animare e promuovere la missione dei comboniani di alcuni ambiti specifici tra cui: giovani, comunicazione, laici, parrocchie, migranti, giustizia e pace… Tra gli altri incarichi c’è anche quello di segretario nazionale del Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria) che comprende 14 congregazioni (7 maschili e 7 femminili) e che promuove incontri formativi tra tutti gli istituti missionari, non solo comboniani. Infine padre Giorgio fa parte anche della Pum, (Pontificia unione missionaria). È uno degli otto visitatori missionari dei Seminari maggiori diocesani in Italia. “Ogni anno visitiamo una regione – spiega – e passiamo tre giorni nei seminari offrendo una testimonianza e una riflessione missionaria per preparare i seminaristi ad essere sacerdoti missionari, ordinati per il mondo e per tutta la Chiesa”.

Brasile e Italia: quali differenze hai trovato tra queste due terre di missione?
Per noi missionari è più semplice vivere la missione nel sud del mondo. Qui siamo nel campo dell’inculturazione della fede e del servizio ai poveri. In Brasile la Chiesa è giovane, entusiasta e creativa perché non ha il “peso” degli anni. Possiamo dire che è meno formale e più “in uscita”, proprio come dice spesso papa Francesco. Il Brasile mi ha aiutato ad essere uomo e prete, mi ha cambiato. E questo perché non si va in missione per essere bravi e buoni o perché abbiamo preti in esubero ma per incontrare Cristo e imparare a essere Chiesa universale. La missione ci arricchisce e ci converte. In Italia e in Europa il discorso è un po’ più complesso perché il cristianesimo e la società sta soffrendo per la secolarizzazione, la globalizzazione, il consumismo e si è perso l’entusiasmo e la gioia di essere cristiani. Spesso in Italia si va in chiesa e si pensa che questo possa bastare ma poi si fatica ad applicare il Vangelo nella propria vita e nella quotidianità. È anche per questo che noi missionari facciamo questa “rotazione”: un periodo fuori dal nostro paese ma poi ritorniamo, perché fa bene anzitutto a noi come sacerdoti ma anche ai paesi e alle Chiese di origine. Siamo in Brasile o in Italia per creare un ponte tra i popoli e dalle Chiese sorelle ci torna indietro tanta ricchezza.

La secolarizzazione in Italia si riflette anche nel drastico calo delle vocazioni missionarie. Com’è la situazione nei paesi in via di sviluppo?
Il vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi, presidente della Fondazione “Missio”, ripete spesso che la Chiesa vive una contrazione missionaria che non è solo numerica. Si tratta di un aspetto che ci deve interrogare. Abbiamo poche vocazioni ma proprio in questo momento bisognerebbe aprirsi e condividere perché ci guadagniamo. Ormai il missionario non va più nei paesi del Sud del mondo per aiutare ma per imparare cosa vuol dire essere Chiesa. Faccio un esempio: in Congo abbiamo 111 comboniani consacrati e numerosi postulanti e novizi mentre in Italia si contano sulla punta delle dita di una sola mano. La contrazione numerica tuttavia è anche dovuta alla perdita di entusiasmo e di una prospettiva pastorale. Oggi il nostro compito è aiutare la Chiesa ad essere missionaria, che poi è la sua finalità ed identità. Non a caso papa Francesco ci invita a ripartire proprio dalla missione e a farne il paradigma per ogni azione pastorale. È il dono dell’annuncio del Vangelo che dobbiamo tornare a condividere.

Da dove ripartire?

Dalla centralità della Parola di Dio, dalla formazione delle comunità, e dal ruolo dei laici.

Quando ero parroco in Amazzonia eravamo appena tre preti e quatto suore su una vasta area che comprendeva 140 comunità ecclesiali. Però tutto funzionava bene perché le persone si riunivano e organizzavano anche senza la presenza del prete. Le comunità sono raggi di luce nel territorio, luoghi di fraternità e solidarietà. E poi è fondamentale la presenza e il ruolo delle donne come ricordato nel Sinodo per l’Amazzonia. L’esperienza e il cammino delle Chiese al sud del mondo ci possono aiutare e ravvivare e il nostro essere cristiani, la nostra Chiesa, perché ogni cristiano è un missionario, una presenza di Cristo. Il tempo di prova che viviamo a causa della pandemia del covid-19 può essere una opportunità per ripensarci, intraprendere nuovi cammini e scelte pastorali, una occasione come direbbe papa Francesco per sognare, per cambiare, per osare.

Si dice che il missionario ha sempre la valigia pronta. Ma cosa ha significato per te dopo 25 anni lasciare il Brasile?
Partire è ancora un verbo molto missionario, vuol dire sradicare le radici del proprio cuore. È stato difficile all’inizio lasciare l’Italia per il Brasile ed è stato difficile poi tornare in Italia. Ma si parte per amore di Gesù e dell’umanità. In Brasile mi hanno aiutato ad essere prete, mi hanno accolto con fede e gioia anche in situazioni difficili. Loro la chiamano “saudade”, ed è un sentimento simile ma più forte della nostalgia, che si prova quando si lascia chi ci vuole bene e che amiamo. Però capisci che lo fai perché è la logica ed il dinamismo dell’amore, del donarsi, del darsi. Ogni partenza e ogni ritorno ci permette poi di capire che siamo tutti nella stessa casa comune, tutto è connesso (Laudato si’). Così quando si lavora su una zolla di terra qui in Italia, si sente che si sta lavorando su tutta la terra, anche quella brasiliana, sul mondo intero.

(*) direttore de “Il Nuovo Amico” (Pesaro-Fano-Urbino)

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