La crisi dovuta al co- vid-19 fra le altre cose evidenzia che il lavoro deve assumere una centralità nuova. Come frutto della clausura imposta, si è ricorso al telelavoro. Se ne parlava già negli anni ’70, quando furono introdotte le nuove tecnologie che po- tevano sostituire il lavoro degli operai. La riduzione di manodopera portava come conseguenza un diverso modello di distribuzione di ricchezza, forse con nuove mansioni produttive, senza la quale nessuno avrebbe potuto acquistare i prodotti. Si diceva allora: lavorare meno, lavorare tutti. Era la condivisione del bene lavoro. Se si arrivasse, per pura ipo- tesi, ad un reddito per la sola cittadinanza, man- cherebbe la consistenza antropologica del lavoro stesso, che è sviluppo della persona e parteci- pazione alla costruzione della società. In questa fase di isolamento le tecnologie hanno permes- so a molti di proseguire il lavoro, in modi diversi, da casa. Ma non tutti i lavori possono essere svolti da lontano
e molto probabilmente molti subiranno trasformazioni signi cative prodotte da questa lunga crisi. Riscoprire il valore antropologico del lavoro e saperlo tradurre concre- tamente in un cambiamento strutturale, nella quotidianità dei luoghi di lavoro, sarà la s da prossima, a partire dalla fase due. Andrà recuperata la dignità e il diritto, insieme
a quello degli operai dell’industria e degli artigiani, anche dei collaboratori domestici, dell’agricoltura, dei servizi alla persona. Il lavoro è più che semplice fattore economico: nella Laborem exercens si dice che è una “fondamentale dimensione dell’umano esistere”. A livello globale, secon- do l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ci sarà una perdita di quasi 195milioni di posti. In Italia si calcola che la disoccupazione salirà dal 10% al 12,7%. Sarà da indagare, allora, cosa signi ca “decrescita felice”. Non basterà, come a volte si pensa, rallentare la produzione. Si dovrà trovare un equilibrio fra diritto alla salute e diritto al lavoro, fra vita sana e vita dignitosa. Occorrerà alzare la qualità della vita e del lavoro. Qui inciderà davvero la crescita degli spazi culturali, dei bisogni immateriali a cui non può rispondere un bene di consumo. La felicità andrà cercata in altre prospettive, che non siano solo il posses- so e il piacere. Il mondo del consumo e dell’edonismo deve cedere il passo a quello della crescita in valori uma- ni, sulla base di una equa distribuzione della ricchezza, senza accumuli in mano a pochissimi.
(*) direttore “Il Momento” (Forlì)

