Pizzaballa: “La guerra è finita, ma Gaza resta un simbolo del conflitto e della tentazione di fuggire”

Si è conclusa a Gaza la visita natalizia del card. Pierbattista Pizzaballa. Il patriarca di Gerusalemme descrive un clima cambiato: non c’è più la guerra, ma restano povertà, tende allagate e bambini senza scuola. Gli aiuti entrano, soprattutto commerciali. Gaza resta simbolo del conflitto e della fatica di restare

(Foto Lpj.org)

Si è chiusa ieri a Gaza la visita “natalizia” del card. Pierbattista Pizzaballa. Poco più di due giorni di incontri, visite, preghiere che hanno permesso al patriarca di Gerusalemme di verificare le condizioni della piccola comunità cristiana locale e della popolazione. A margine della visita il Sir ha intervistato il cardinale nell’imminenza delle celebrazioni natalizie che lo vedranno presiedere la Messa di Mezzanotte, a Betlemme, dove è atteso anche il presidente palestinese Abu Mazen.

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Eminenza, lei è appena rientrato da Gaza. Che clima ha trovato rispetto ai mesi scorsi?
Il clima è cambiato molto. Non c’è più la guerra guerreggiata, anche se restano episodi di attacchi sporadici. Però non c’è più una guerra in corso. Si percepisce chiaramente un desiderio di ripresa della vita, di ricominciare a vivere. Si vede più gente in giro, il cibo c’è. Bisogna riconoscere che gli aiuti ora entrano, soprattutto di tipo commerciale e meno umanitario, ma comunque entrano. Non c’è fame, e questo va detto. Per il resto, però, la situazione resta molto difficile: la gente vive ancora nelle tende, senza nulla. Con il freddo mancano coperte, protezione dalla pioggia, le condizioni restano povere. Ci sono moltissimi bambini per strada, senza scuola. La guerra è finita, ma c’è tutto da ricostruire.

All’inizio della visita alla piccola comunità cristiana di Gaza ha ricordato: “Qui ci sono le nostre radici e qui resteremo”. Era un messaggio solo per loro o anche per i cristiani di Terra Santa?
Entrambe le cose. Gaza oggi è un simbolo, lo si voglia o no. È il simbolo del conflitto che stiamo vivendo, della fatica di starci dentro e della tentazione della fuga. Dire “restiamo” significa affermare: questo è ciò che siamo e questo è ciò che saremo. Quella piccola comunità è stata esemplare in questo. Siamo testimoni. È una comunità che ha dato una testimonianza di fede.

Lo scorso Natale lei disse: “Credere o lasciare”, una scelta decisiva, o “abitare questa nostra terra e vivere questa nostra storia o andarcene per la nostra strada”. È cambiato qualcosa nel frattempo?
La vita resta quella che è. Ma quest’anno l’accento è sul coraggio di assumere questa realtà e starci dentro guardando avanti. Non ripiegarsi solo sul dolore, ma ricominciare, ripartire. Il Natale ci ricorda che Dio entra nella storia così com’è, non in una storia ideale o perfetta. Entra nella nostra storia concreta e la cambia, indicando anche il nostro modo di starci dentro.

Che significato ha allora l’“Emmanuele”, il Dio con noi, per chi vive nella paura quotidiana e nell’incertezza?

Dio non cancella la notte, ma la illumina. La notte resta, con tutto ciò che porta con sé, ma non è più oscurità totale.

(Foto: AFP/SIR)

La paura quotidiana e l’incertezza avvolgono anche la Cisgiordania sempre più segnata dall’occupazione e dagli attacchi dei coloni contro le proprietà e i villaggi palestinesi. Un conflitto che trova poco spazio nei media, perché?
Se ne parla poco perché i giornali ne parlano poco. Noi ne parliamo, come Patriarcato e come Chiese, lo abbiamo detto molte volte.

La situazione è davvero grave, soprattutto per l’impunità con cui agiscono questi coloni.

Posso solo ribadire ciò che abbiamo già denunciato più volte pubblicamente.

Che ne pensa del ruolo della comunità internazionale in questo conflitto? E sul riconoscimento della Palestina?
Dipende da cosa intendiamo per comunità internazionale. Le società civili sono state molto vicine e continuano a esserlo. Gli organismi multilaterali, invece, hanno mostrato tutta la loro debolezza. Ultimamente, però, li vedo meno timidi rispetto al passato.

Foto Calvarese/SIR

I pellegrinaggi stanno lentamente riprendendo. Qual è la loro importanza oggi?
I pellegrinaggi sono un ‘gesto’ molto concreto e una forma reale di solidarietà e vicinanza alla comunità cristiana e alle altre comunità.

Senza i pellegrini la Terra Santa non è completa.

Portano un beneficio materiale, necessario per tante famiglie, ma soprattutto portano l’abbraccio del mondo, di cui abbiamo profondamente bisogno.

Esistono oggi gesti concreti di pace che il Patriarcato può proporre?
Non è ancora il momento. È troppo presto. Dopo una violenza così immane ci sono ferite profonde. I gesti devono essere veri, e per essere veri hanno bisogno di tempo. Ma noi ci siamo e ci saremo.

C’è un appello che per questo Natale vuole lanciare ai cristiani del mondo e alla comunità internazionale?
La pace non è uno slogan. È una responsabilità che coinvolge tutti: dai potenti del mondo alle persone più semplici. Il Vangelo inizia con Cesare Augusto e finisce con i pastori. Questa responsabilità è affidata a tutti noi. La pace va costruita insieme, giorno dopo giorno.

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